di Gianluca Abbate*
La violenza di genere non è soltanto violenza fisica e psicologica ma è anche violenza economica: una forma di costrizione odiosa che si traduce in atti di controllo dell’uso del denaro accompagnati dalla minaccia di negare risorse economiche, impedendo alla persona “vittima di violenza” persino di avere un lavoro proprio o privandola della possibilità di disporre dei propri beni patrimoniali.
La violenza economica si sviluppa all’interno delle famiglie e chi la subisce è, in genere, la donna, a cui viene negata la minima forma di indipendenza economica, affinché resti soggiogata al potere discrezionale del partner in posizione di “superiorità economica”. Nonostante sia un fenomeno consolidato e socialmente trasversale, nel 2021 se ne parla ancora poco, forse perché si configura come una prassi sommersa, che lascia segni meno evidenti – ma non per questo meno debordanti – rispetto alla cruenta violenza fisica. A volte, chi subisce violenza economica ha difficoltà a riconoscersi come vittima, a causa di retaggi culturali ancorati alla concezione granitica che sia l’uomo a detenere il controllo economico.
Ma come s’individua allora tale forma subdola di violenza? Si va dal controllo esclusivo dell’economia familiare fino all’appropriazione indebita dei beni personali del partner: gestione non condivisa del conto corrente cointestato, decisioni d’investimento adottate in modo autoritario e unilaterale, riconoscimento al partner di un esiguo compenso periodico per le spese essenziali con dovere di rendiconto dettagliato, accesso ai rapporti bancari negato con privazione della facoltà di utilizzo di bancomat e carte di credito, dilapidazione di sostanze economiche in danno degli altri componenti del nucleo familiare, obbligo, a seguito di minacce, per il partner “fragile” di prestare il consenso ai fini della concessione di ipoteche o dell’accollo di onerosi debiti personali quali prestazione di fideiussioni o accensione di finanziamenti, imposizione di rivestire cariche amministrative in società con conseguente assunzione di responsabilità illimitate, divieto assoluto di accedere al mondo del lavoro o, in alternativa, appropriazione dei proventi dell’eventuale occupazione, il tutto con l’obiettivo di defraudare il proprio congiunto di qualsiasi autonomia finanziaria e sociale, relegandolo in un contesto di isolamento, di inferiorità e di inadeguatezza.
La violenza economica viene elencata tra le forme di violenza nei confronti delle donne all’articolo 3 della Convenzione di Istanbul, approvata dal Consiglio Europeo nel 2011. In Italia non è qualificata come reato a sé stante ma è inquadrabile nell’ordinamento giuridico sia dal punto di vista civile che penale. Ai casi di violenza economica si possono applicare, ad esempio, gli ordini di protezione contro gli abusi familiari ai sensi degli artt. 342 bis e 342 ter del codice civile. Inoltre, essa viene menzionata dall’art. 3 del decreto 93/2013 convertito in legge 119/2013 che disciplina l’istituto dell’ammonimento. C’è, però, ancora molto da fare e gli ordini professionali devono essere in prima linea: pertanto, con la Commissione Terzo Settore/Sociale del Consiglio Nazionale del Notariato, da me presieduta, ho ideato, sin dal 2018, un progetto volto alla stipula di protocolli di intesa tra centri antiviolenza e Consigli Notarili Distrettuali, al fine della diffusione della cultura dell’informazione sui cosiddetti “diritti di difesa” e della prevenzione in ordine agli aspetti collegati alla violenza economica.
*Notaio, Consigliere Nazionale del Notariato e Presidente della Commissione Terzo Settore/Sociale
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