Fondazione Marisa Bellisario

Pari opportunità: un varco per le lavoratrici

Nonostante i continui appelli per la parità dei sessi nel mondo del lavoro, le donne continuano a essere discriminate ai livelli più alti delle imprese. L’iniziativa di Viviane Reding è un passo concreto per cambiare le cose. 

 

Se c’è una virtù che non si può negare alla lussemburghese Viviane Reding è la perseveranza. Da quando ha preso in mano le redini della giustizia Ue, l’esperta commissaria si è lanciata in una battaglia per aumentare il potere delle donne europee e la loro presenza nei consigli d’amministrazione delle grandi aziende.

Ma Reding non è sola: in Europa ci sono molte organizzazioni hanno lo stesso obiettivo. Eppure finora i risultati sono stati scoraggianti. In un certo senso c’era da aspettarselo, considerando che questa battaglia minaccia la cupola del potere più di tutte le altre. Nessun cavaliere è disposto a offrire gentilmente il suo posto a una dama, e così si spiega il fallimento della prima proposta di Reding, che nel 2011 aveva invitato le grandi aziende ad applicare le pari opportunità su base volontaria.

Il sistema delle quote, così presente in altri ambiti della nostra democrazia rappresentativa, in questo caso non si applica. Per volere degli stati (si veda il caso tedesco, dove al momento si preferisce l’autoregolamentazione), ma anche della società nel suo complesso. Bisogna ammettere che ci sono argomenti ragionevoli contro le quote rosa nei consigli d’amministrazione: la libertà di impresa, la prevalenza del merito sul genere eccetera. Ma è altrettanto vero che la discriminazione è un fatto evidente: in un continente che ha una lunga evoluzione egualitaria e in cui il 60 per cento dei nuovi laureati sono donne, l’86,3 per cento dei consiglieri d’amministrazione sono uomini.

Per questo motivo la scelta di incrociare le braccia e sperare che nei prossimi cinquant’anni questo squilibrio si corregga da sé presto sarà minoritaria in Europa. Undici dei ventisette stati dell’Ue hanno già approvato una legge per forzare il cambiamento in un periodo di tempo più breve. Sono leggi giovani, e molte hanno meno di tre anni, come è il caso di Belgio, Danimarca, Francia (con risultati spettacolari), Italia, Paesi Bassi e Slovenia. La Spagna e i paesi nordici sono arrivati in anticipo. Tuttavia sono anche leggi molto timide, che hanno favorito l’incorporazione delle donne nei consigli di amministrazione ma lo hanno fatto a un ritmo molto lento (la percentuale è passata dall’11,8 al 13,7 per cento).

In poche parole non è ancora il momento di festeggiare, ma non bisogna nemmeno deprimersi. L’Ue ha un autentico potere decisionale soltanto in merito a questioni agricole, commerciali e di competenza. Per quanto riguarda tutto il resto, se si vuole raggiungere un obiettivo ci vogliono molta convinzione e perseveranza, fino a quando il cambiamento arriva a livello nazionale e da lì nei trattati internazionali. Basta pensare alla battaglia contro il cambiamento climatico e alla sconfitta europea sull’imposizione del mercato di quote di CO2 alle compagnie aeree straniere. La parità dei sessi, si può dire, incontra lo stesso tipo di resistenze: interessi economici, sistema produttivo, abitudine.

Nessuno meglio della Commissione europea sa quanto è difficile puntare sulle donne. Ogni cinque anni Bruxelles implora i governi nazionali di presentare candidati donna, eppure non è ancora riuscita a creare una squadra di commissari dove le donne siano più di un terzo. L’impronta egualitaria impressa da Zapatero alla politica spagnola si è già attenuata con l’avvento di Rajoy.

Reding ha preparato un’iniziativa “soft” per aprire un varco, ma ha sbagliato nel formulare una proposta di carattere temporaneo che scade nel 2028. Perché dubito che prima di allora, con leggi così poco severe a livello europeo e nazionale, ci saremo sbarazzati di una discriminazione così lampante.

 

Fonte: El País, 15 novembre 2012 –  Presseurop, traduzione di Andrea Sparacino

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