di Chiara Trombini*
Sono trascorsi vent’anni da quando l’economista comportamentale Daniel Kahneman vinse il premio Nobel per aver integrato i risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, introducendo i concetti di bias cognitivi e irrazionalità come fattori fondamentali nella presa di decisione. I bias cognitivi rappresentano una forma inconscia (da cui il termine “unconscious bias”) di distorsione della valutazione causata da stereotipi e pregiudizi. Gli uncoscious bias si presentano in varie forme e circostanze e possono rappresentare una minaccia non indifferente per gli sforzi organizzativi diretti allo sviluppo di un contesto aziendale che valorizzi la Diversità, l’Equità e l’Inclusione.
È particolarmente importante che gli attori organizzativi responsabili di decisioni fondamentali come assunzioni, promozioni e performance review, individuino i propri unconscious bias che influenzano, a loro insaputa, le loro valutazioni, portandoli spesso a prendere decisioni subottimali. Decisioni subottimali a questi stadi significano, per esempio, assumere un dipendente rispetto a un altro più meritevole o con maggior potenziale, promuovere in posizioni di leadership un manager con caratteristiche simili a quelle dei loro predecessori (quali il genere, la città di provenienza, l’università dove ha conseguito la laurea, ecc.), oppure scrivere una revisione delle prestazioni dei dipendenti non oggettiva.
Sono molte le aziende che investono negli uncoscious bias trainings, ossia workshop ideati con l’obiettivo di individuare quali sono i pregiudizi e gli stereotipi inconsci degli individui, spesso condotti da figure professionali esperte come docenti universitari. Ma questi training funzionano veramente? Quali sono le condizioni necessarie affinché questi workshop abbiano gli effetti desiderati? Ossia fornire consapevolezza dei propri pregiudizi e stereotipi, prendere decisioni quanto più consapevoli e oggettive volte sia a diminuire la discriminazione che a migliorare le performance aziendali? La letteratura scientifica presenta risultati contrastanti riguardo l’efficacia di questi training, sottolineando che spesso sono inefficaci nel rimuovere i bias degli individui. I motivi principali sono riconducibili al fatto che la partecipazione a questi training avviene spesso su base volontaria e, di conseguenza, vi partecipano solo i dipendenti e i manager interessati a individuare e ridurre i propri bias. Inoltre, molti training si limitano a presentare evidenze scientifiche sull’esistenza dei bias e i conseguenti costi per le aziende. Ma questo non basta. Affinché gli unconscious bias trainings siano veramente efficaci, devono fornire ai partecipanti (auspicabilmente non su base volontaria, ma integrati in un processo aziendale come, per esempio, l’onboarding) strategie chiare non solo per poter individuare i propri bias ma per comportarsi di conseguenza nell’approccio alle decisioni. Altresì, per valutare l’efficacia di questi training e i benefici che possono apportare alle aziende nel medio e nel lungo periodo, è importante monitorarne regolarmente i risultati e i miglioramenti nel tempo (ad esempio nell’ambito della rappresentazione femminile nei vari livelli gerarchici).
Per citare alcune multinazionali, Microsoft studia quali sono le caratteristiche che rendono i dipendenti più o meno motivati a seguire un unconscious bias training. Starbucks misura regolarmente l’engagement dei propri dipendenti rispetto all’anti-bias tramite interviste e questionari. Gli unconscious bias trainings rappresentano un passo importante per la creazione di ambienti lavorativi che sappiano valorizzare la Diversità, l’Equità e l’Inclusione. Tuttavia, la partecipazione a un corso è solo il primo passo che le aziende e i manager possono intraprendere. Monitorare regolarmente i progressi e fornire feedback per migliorare i comportamenti individuali e le policy organizzative sono fondamentali per far sì che le aziende beneficino al massimo del prezioso valore di ogni singolo dipendente.
* Research Fellow, INSEAD Business School
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