di Laura Parlavecchio*
È stato lo psichiatra giapponese Tamaki Saito, agli inizi degli anni ’70, a segnalare per primo le condizioni di disagio negli adolescenti che usavano in modo compulsivo il computer. Il fenomeno, diventato noto come Hikikomori (in giapponese significa “isolarsi in un posto chiuso”), è la scelta di ritirarsi da ogni contatto e vincolo sociale e umano. Colpisce soprattutto adolescenti e giovani adulti, con una netta prevalenza del sesso maschile (4/1) e una durata media di circa 3 anni. Il 23% dei casi si presenta già nel 1° anno delle scuole Medie Inferiori.
Il fenomeno è partito dal Giappone, ma ormai ha portata globale e vede l’Italia al 3° posto nel mondo per incidenza.
Il paziente Hikikomori ha caratteristiche precise:
1) uno stile di vita imperniato sulla casa, anzi più spesso su una sola stanza;
2) mancanza di interesse per scuola e lavoro;
3) una durata minima del comportamento di almeno sei mesi.
È una particolarità che ne siano colpiti per lo più giovani primogeniti che appartengono a classi sociali medio-alte e che crescono in famiglie dove il padre è assente per lavoro, per cui la responsabilità della loro educazione ricade quasi totalmente sulle madri. Sono ragazzi che crescono in un contesto sociale e scolastico caratterizzato da alta competitività e alte aspettative familiari.
Con l’ingresso nella scuola, infatti, le madri abdicano al proprio ruolo delegando alla scuola e al gruppo dei pari il compito di inserire il ragazzo nella società e costruirne l’identità. La conseguenza di questo “cambio della guardia” è che i genitori saranno considerati come coinquilini e non più riconosciuti come figure autorevoli da cui apprendere norme e regole.
Il polo autoritario si sposta da una singola persona (padre, professore, etc.) al gruppo dei pari al quale l’adolescente deve aderire. Questo contesto favorisce il bullismo, per cui chi non si conforma al gruppo, o non è in grado di entrare o di rimanerci, si considera inadeguato e decide di isolarsi. L’autoreclusione è l’unico strumento per manifestare il proprio dissenso e il disagio rispetto al gruppo e alle norme.
Ultimo fondamentale ingrediente perché il fenomeno si verifichi è il rapporto con le nuove tecnologie, che offrono mondi virtuali lineari e comprensibili agli occhi degli adolescenti: qui le regole sono chiare, le ricompense esplicite e facilmente raggiungibili; mentre nel mondo reale è tutto più sfumato e le regole diventano complesse, soprattutto nel momento in cui si esce dall’infanzia e ci si affaccia all’età insicura dell’adolescenza. A questa età si cominciano ad affrontare le frustrazioni degli obiettivi mancati e risultati non sempre proporzionati all’impegno profuso: ci vogliono coraggio, sicurezza delle proprie radici e maturità per esporsi al fallimento e alla vergogna.
L’uso della tecnologia agevola quindi la nascita del fenomeno Hikikomori perché, attraverso Internet, il giovane crea un’identità virtuale e sviluppa una rete di amicizie in realtà fittizie, sentendosi protetto dallo schermo e in un ambiente dove non ci sono classi né ruoli sociali.
Sono dunque un’insufficiente sicurezza proveniente dal sistema familiare e la mancata risposta delle Istituzioni (scuola, rapporti sociali) la radice della perdita della speranza dell’adolescente che ricerca sé stesso ma, in assenza di relazioni e interazioni, non riesce a strutturare una vera identità e a progredire in quel percorso maturativo che avviene solo quando si mettono alla prova le proprie forze e ci si confronta con il mondo reale.
Il fenomeno Hikikomori è quindi il frutto di un insieme di fattori presenti nella vita dell’adolescente e che coinvolgono sia le relazioni familiari sia quelle sociali.
* Medico Psichiatra Psicoterapeuta
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