Fondazione Marisa Bellisario

SI PUÒ FARE

di Enrica Giorgetti*

La discussione sulla presenza femminile nel mondo del lavoro va, innanzitutto, orientata al pragmatismo, liberata da approcci rivendicativi e focalizzata invece su obiettivi concreti.

Le leggi servono, lo dimostra il successo della legge Golfo Mosca che in meno di 15 anni ha portato la presenza femminile nei Cda delle aziende quotate dal 5,4% al 43%, secondo Eurostat: un risultato forse poco noto che ci ha consentito di passare dagli ultimissimi posti in Europa a secondi dietro la sola Francia.

Ma deve trattarsi, appunto, di leggi buone, ovvero che partano da un’analisi dei problemi reali e sappiano incidere sulla realtà, come in quel caso. Se, infatti, nei segmenti più alti della società vige ormai una sostanziale parità, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda la sua base.

In questo caso, però, è necessario partire dalla realtà, per identificare i temi sui quali agire prioritariamente e conoscere le best practice che hanno già affrontato e risolto alcuni problemi. Si parla molto del gender pay gap, anche se l’Italia è il Paese che registra il valore più basso d’Europa (per Eurostat 4,3% contro una media del 12,7%). Non si parla forse abbastanza del vero gap, quello dell’occupazione, per il quale siamo invece penultimi davanti alla sola Grecia.

In definitiva, se il tetto di cristallo in alto tende a essere meno “spesso”, abbiamo ancora quello di un pavimento troppo stretto e fragile in basso, che penalizza l’aspirazione delle donne ad entrare nel mondo del lavoro, per cui servono leggi buone e non burocratiche e la valorizzazione di imprese e corpi intermedi in ottica di sussidiarietà.

Dove non arrivano i poteri pubblici e la legge, possono però arrivare il mercato e la società.

È il caso dell’industria farmaceutica, un settore che registra numeri eloquenti: le donne sono il 45% dei dipendenti contro un dato medio del settore industriale del 29%. E sono distribuite a tutti i livelli: fra i quadri e i dirigenti sono il 46%, il doppio esatto della media dell’industria nel suo complesso. E, tanto per smentire l’altro luogo comune che vedrebbe le donne poco interessate ai percorsi formativi in discipline STEM, nella ricerca sono più degli uomini.

Non sono risultati di leggi o finanziamenti pubblici: sono bastate le dinamiche del mercato e la lungimiranza di una dirigenza consapevole che in un settore tecnologico in frenetica evoluzione le forze fresche servono e le capacità delle donne sono importanti. Insieme a parti sociali innovative, capaci di costruire relazioni industriali moderne con azioni concrete di welfare aziendale (sanità integrativa, formazione, conciliazione vita-lavoro, genitorialità, assistenza, sviluppo professionale).

E i risultati si vedono: l’industria farmaceutica non solo ha più donne ma anche più figli (+45% per nucleo famigliare rispetto alla media nazionale); maggiore retention dei talenti (turnover in uscita più basso della media); più alta produttività (tre volte la media dell’economia).

È solo un esempio che dimostra che si può fare. Ma è un esempio da tenere in considerazione perché se è vero che il ricambio generazionale è destinato ad assottigliare spontaneamente i divari occupazionali (nella fascia di età 15-29 anni c’è un divario di genere del tasso di occupazione del 9% contro il 20% della fascia 55-64 anni) è altrettanto vero che i problemi del lavoro femminile non finiranno ma, semplicemente, convergeranno con quelli generali del mercato del lavoro italiano: modello contrattuale da modernizzare valorizzando la contrattazione di secondo livello,  welfare pubblico sbilanciato sulle prestazioni pensionistiche, scarsa diffusione del welfare integrativo, necessità di politiche attive per incentivare  la formazione in azienda.

Ma se qualcuno ce la sta facendo, significa che ce la possono fare tutti: lasciandosi alle spalle approcci ideologici e metodi dirigisti e con la concretezza della quale è capace il mondo dell’impresa.

*Direttore Farmindustria

 

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