La storia dell’ultima, ennesima vittima di femminicidio ci inchioda a una riflessione e ci lascia un dubbio atroce: Martina Scialdone, avvocata romana di 35 anni uccisa dal suo ex compagno poteva essere salvata? La dinamica la conosciamo, tutti i quotidiani hanno dato ampio spazio a un orrore che ha scosso tutti. Perché Martina non ha subito violenza in silenzio tra le mura domestiche ma l’ultimo e violento litigio con il suo assassino è avvenuto davanti agli occhi di chi sabato aveva scelto di trascorrere la serata in un ristorante. Se fossimo stati lì, cosa avremmo fatto? Avremmo girato la testa, continuando a goderci un sabato sera qualsiasi, l’ultimo di quella ragazza?
È un pensiero che non mi abbandona ma ho una certezza: io non l’avrei lasciata sola. Perché sono fatta così e perché da troppi anni leggo di storie di donne che sottovalutano un gesto di violenza, un urlo più alto del solito, uno scatto d’ira improvviso. Donne che giustificano il loro marito, compagno, padre o fratello, che minimizzano, che nascondono i lividi, che non denunciano. Donne che credono che quell’uomo cambierà, che spetta a loro avere pazienza e coraggio, sopportare.
Ecco, la mia speranza è che questa storia faccia riflettere tutti. Martina non era un’avvocata qualsiasi, lei si occupava di donne maltrattate, lei sapeva, conosceva, eppure non ha compreso. Forse più che sottovalutare il pericolo, sopravvalutiamo la nostra forza, la capacità di cambiare l’altro, di redimerlo. O forse ancora, crediamo che il mostro sia sempre altrove. Mi ha molto colpito che nella prima commissione parlamentare d’inchiesta sia emerso che su 200 donne uccise, l’85% non aveva mai fatto una denuncia e, addirittura, il 63% non aveva detto a nessuno di subire violenza e di temere per la propria incolumità. È un dato che rivela la solitudine di chi subisce violenza.
E in quella solitudine, ognuno di noi ha una parte in gioco. Ce l’hanno gli amici che sanno, i vicini di casa che attraverso i muri sentono le urla e non intervengono, le famiglie che restano a guardare. Il punto vero è che, nonostante l’interminabile elenco di donne uccise da chi diceva di amarle, noi continuiamo a pensare che “non sono fatti nostri”. Continuiamo a ritenere che si tratti di litigi tra un uomo e una donna e non di un gigantesco problema che ci riguarda tutti perché ha a che fare con la cultura in cui siamo immersi e che i nostri figli stanno introiettando e replicheranno negli anni a venire.
Nessuna donna muore per mano di un uomo per motivi personali. Ogni singolo femminicidio è espressione della volontà di possesso e di dominio dell’uomo sulla donna. Una volontà che si trasmette da una generazione all’altra in base a un meccanismo che non perdona: se un bimbo assiste alla violenza del padre sulla madre, e avviene spesso, avrà una probabilità molto più alta di diventare a sua volta autore da adulto. Una volontà che si basa su stereotipi che si trasmettono spesso inconsapevolmente e sono presenti anche nelle istituzioni e nei media e rappresentano il terreno di cultura della violenza.
Ogni singolo episodio di violenza sulle donne parla di una guerra da combattere e di un virus da estirpare con tutti i mezzi possibili. Non si vince una piaga tanto complessa solo con delle leggi – che servono – ma serve un’azione multidimensionale, permanente, diffusa che coinvolga l’intera società. Serve protezione per le donne colpite ma anche percorsi di libertà femminile e di empowerment. Serve formazione per tutti coloro che possono intercettare la violenza, in particolare nelle istituzioni. Serve la collaborazione dei media che devono imparare a trattare gli episodi di violenza usando le parole giuste, sapendo che non si tratta di casi di cronaca nera. Servono anche istituzioni che non inducano a soprassedere e non denunciare né elaborino sentenze che tolgono i figli alle madri per il rifiuto del figlio di vedere il padre senza capire che spesso dietro quei rifiuti c’è una violenza domestica che non si vuole più vivere. Serve credere alle donne nei tribunali e durante i processi, senza minimizzare.
Serviamo tutti noi perché in ogni singolo femminicidio il movente è una cultura patriarcale che resiste e che vuole tenere le donne in un angolo. Serve il coraggio di non girarsi dall’altra parte, di fuggire l’indifferenza.
“Non è un semplice reato”, “è una ferita che riguarda ognuno di noi” ha scritto Papa Francesco, che a più riprese ci ha invitato a non guardare dall’altra parte, interpellando la società tutta per non cedere all’indifferenza. Ascoltiamolo.
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