di Monica Mosca *
Abbiate un attimo di pazienza, desidero partire da lei.
Pensate un momento a Samantha Cristoforetti. La conosciamo tutti, la conoscono in tutto il mondo.
Astronauta, aviatrice, prima donna in Europa a comandare la Stazione Spaziale Internazionale, tre lauree, sei lingue parlate (russo e cinese compresi), Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito, un compagno, due figli. Una stella nel firmamento femminile.
E ora pensate alle donne afghane.
Non ho purtroppo un nome da farvi, pensate a tutte loro come a una donna sola: nascosta sotto l’hijab che lascia scoperti solo gli occhi, oppure sotto al burqa, che gli occhi li nasconde dietro una trama di ricami.
Cosa hanno in comune Samantha e questa donna “corale” coperta dalla testa ai piedi? Solo il colore azzurro: la prima, quello della tuta spaziale che l’ha accompagnata nei cieli più arditi; l’altra, quello del burqa che come un macigno la tiene inchiodata a terra.
Eppure sono donne che indubitabilmente vivono sotto lo stesso cielo.
Signore e signori, il nostro silenzio è colpevole: è il caso di riconoscerlo e di vergognarci, io come giornalista per prima, di tanta fragorosa assenza.
Con un annuncio choc, la settimana scorsa il mullah Hibatullah Akhundzada, leader supremo del Paese, ha fatto sapere che ricominceranno le lapidazioni in pubblico delle donne accusate di adulterio.
L’ha riportato per primo il britannico “Guardian” e va detto che l’orrore è rimbalzato poi su tutti i giornali del mondo. Siate però sinceri: quanti di voi l’hanno letto? A quanti invece è sfuggito?
Perché la notizia è rotolata senza fare rumore, scivolata via come una bomba di gommapiuma, silenziosa e tutto sommato poco accattivante. Non ho sentito echi di trombe impazzite a gridare all’intollerabile sopruso.
Quasi tre anni dopo il loro ritorno al potere, i Talebani aggiungono quello che forse è il tassello finale al puzzle dei diritti negati alle donne. Il mullah l’ha annunciato solo con la voce, senza comparire in video, alla Radio Television Afghanistan, e si è rivolto direttamente all’Occidente, personificandolo. Ha dunque parlato a noi, uno per uno, a noi che eravamo tanto distratti.
«Potresti definirla (la lapidazione, ndr) una violazione dei diritti delle donne, perché in conflitto con i tuoi principi democratici, ma io rappresento Allah, e tu rappresenti Satana».
Solo per ricordarlo, la lapidazione di una donna consiste nello scagliare pietre in faccia e in testa alla condannata a morte, perché il corpo è sepolto fino al petto. A tirare i sassi sono i militari del governo, oppure il popolino tutto, se fosse importante sappiate che questo varia da caso o caso.
Da quando le truppe americane si sono ritirate dall’Afghanistan, dove in vent’anni non sono esattamente riuscite a riportare la democrazia, il destino delle donne si compie giorno dopo giorno, con una infinita sequela di diritti negati.
Non possono studiare dopo la scuola elementare, non possono lavorare, sono costrette a matrimoni forzati.
A loro sono proibiti i parrucchieri, le passeggiate nei giardini, la guida dell’auto, gli hammam. Se escono di casa, devono bardarsi con il velo integrale.
Non possono nemmeno in alcun modo essere difese, poiché i Talebani hanno proibito a tutte le associazioni umanitarie anche internazionali di assumere donne. Per loro c’è naturalmente il divieto di svolgere lavori come il giudice, o l’avvocato, o il medico: il che significa che senza altre donne a proteggerle e a curarle, le donne tutte sono spacciate.
Per la cronaca, le donne derubate così disastrosamente di ogni diritto in Afghanistan sono 14 milioni, non proprio pochissime.
«Inizia così un nuovo capitolo di punizioni private per le donne che stanno sperimentando una nuova profonda solitudine», ha dichiarato Safia Arefi, responsabile dell’organizzazione afghana per i diritti umani Women’s Window of Hope, riferendosi all’annuncio del ritorno della lapidazione.
Io dico che la loro solitudine si chiama invece abbandono e che a lasciarle sole siamo tutti noi occidentali, che stiamo facendo spallucce alle minacce del leader Akhundzada. Come si dice, non c’è peggior sordo…
Le donne afghane sono ombre. Sono esseri perduti delle quali non conserviamo memoria. Sarà che i fronti per i quali facciamo sentire la nostra voce sono già tanti e pressanti, così vicini a casa nostra, che spazio nel cervello per le donne schiave dei Talebani non ne troviamo colpevolmente più.
Ci sono guerre che ci preoccupano: l’invasione dell’Ucraina, alle porte d’Europa; Israele e Gaza che scambievolmente si coprono di sangue, e a voler sofisticare abbiamo grane anche con certi attentati terroristici che mettono paura.
Fra l’Afghanistan e l’Italia ci sono quasi 5 mila chilometri: abbastanza per pensarci domani. Ma la verità è che per loro un domani non c’è: le donne afghane sono piaghe che dovrebbero incancrenirci il cuore.
*Giornalista
Concordo pienamente con te, Monica. Ho seguito con angoscia e sconforto quanto è accaduto e i pochi trafiletti di giornale. E’ una vergogna sia che queste cose accadano nel mondo, sia che il mondo “civile” resti a guardare, impassibile e indifferente, questa altra “zona di interesse”, e che non senta sulla coscienza il fallimento della “deportazione di democrazia”. Come associazione potremmo fare qualcosa?
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Sono sconvolta, non si può rimanere impassibili di fronte a tanta barbarie . Ma come possiamo intervenire per liberare le donne da tali forme di schiavitù? Cosa possiamo fare?
Vorrei tanto
fossero attuati sistemi di sensibilizzazione e forme di intervento per combattere l’oscurantismo, smuovere le coscienze e restituire alle donne afgane i diritti negati.
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