di Stefano da Empoli*
La giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza è stata l’ennesima occasione per ricordare la disparità di genere sia a livello educativo che lavorativo nelle materie STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics). Secondo l’ISTAT, se i laureati STEM rappresentano il 24% della popolazione laureata tra i 24 e i 35 anni, questa percentuale è in realtà il classico pollo di Trilussa che fa la media tra il 33,7% per gli uomini e il 17,6% per le donne. La disparità è evidente anche a livello internazionale, sia pure meno pronunciata (e in diminuzione). Secondo il Global Gender Gap Report 2023, pubblicato dal World Economic Forum, le donne che si laureano in discipline STEM sono passate dal 35,5% al 38,5% del totale in soli 4 anni (dal 2017 al 2021). Anche se questo aumento è stato in parte vanificato da una crescita di soli due punti percentuali di chi trova un’occupazione STEM a un anno dalla laurea (dal 29,6% del 2017 al 31,6% del 2021).
Se guardiamo solo all’intelligenza artificiale (IA) va perfino peggio: la concentrazione di talento nei settori economici è un affare prevalentemente maschile, con solo il 30% riservato alle donne. Una percentuale comunque in (lenta) crescita dal 26% del 2016. Anche se a limitare questa crescita, specie tra chi è pagato meglio, sono i numeri di chi esce dalle università. Secondo l’edizione 2023 dell’AI Index dell’Università di Stanford, che dedica un capitolo alla diversità (di genere ma anche etnica), la percentuale femminile tra i diplomati di master e dottorato di informatica delle università nordamericane aumenta a passo di lumaca. Per i primi si è passati dal 24,6% del 2011 al 27,8% del 2021, per i secondi dal 19,9% del 2010 al 23,3% del 2021. Ma il dato peggiore è proprio quelli dei nuovi dottori di ricerca in IA, di cui le donne hanno costituito nel 2021 appena il 21,3% tanto da indurre gli estensori del rapporto a concludere che non è possibile rinvenire nessun particolare trend di riduzione del gap di genere. In effetti, guardando alla serie storica, si può notare che nel 2014 la percentuale femminile è stata perfino superiore rispetto all’ultimo dato osservato. Non è dunque un caso se, guardando ai dati OCSE relativi alle pubblicazioni scientifiche e dunque ai migliori talenti del settore, si scopre che nel 2022 le donne rappresentavano solo un quarto degli autori. Mentre le pubblicazioni con autori solo maschili rappresentavano ben il 55% del totale, quelle con solo autrici si fermavano all’11%.
In questo quadro che di rosa ha ben poco, arriva però una sorpresa per noi italiani. Di tutti i Paesi osservati dall’OCSE, l’Italia è addirittura al primo posto per pubblicazioni con almeno un’autrice (il 47%), davanti a India e Cina e ben al di sopra di nazioni certamente più avanti di noi nella parità di genere come Francia (38%), Finlandia (35%), Svezia (34%) e Germania (33%). L’Italia fa meglio della media anche tra gli utenti della piattaforma per sviluppatori Stack Overflow, dove la percentuale di donne in media non va oltre il 4% e l’Italia si piazza a un onorevole quinto posto per partecipazione femminile, con poco più del 6% di programmatrici dietro Norvegia e Belgio (gli unici Paesi con una rappresentanza di donne superiore al 10%), Danimarca e Svizzera. Questo primato relativo delle scienziate italiane che si occupano di IA dopotutto non sorprende perché in un Paese in cui gli scienziati sono tendenzialmente uomini tra i primi nomi che vengono in mente pensando all’IA una buona percentuale sono in effetti donne. Chi scrive era fino a poco tempo fa convinto che questo fosse probabilmente un caso fino a quando ha ascoltato la versione disarmante di una delle scienziate italiane di punta. Secondo la quale la vera ragione per la quale molte italiane hanno raggiunto ruolo apicali nella ricerca, fatto del tutto inconsueto considerando altri settori disciplinari, dipenderebbe dal fatto che, con un lungo inverno dell’IA durato fino ai primi anni del nuovo secolo, molti uomini consideravano l’IA poco attrattiva e dunque si sono specializzati in altro. Spiegazione in effetti perfettamente plausibile e che lascia decisamente preoccupati sul futuro, ora che l’IA è tornata prepotentemente di moda. Anche perché, tra le discipline STEM, informatica e tecnologie ICT è quella che presenta la disparità di genere più accentuata tra gli immatricolati. Che nell’anno accademico 2022/23 erano donne in appena il 15,1% dei casi, secondo i dati MUR. Dunque, a meno di interventi specifici, è probabile che l’eccezione italiana dell’IA sia presto riassorbita. Segnando un elemento di regresso per la parità di genere che dobbiamo fare di tutto per evitare.
*Presidente Istituto per la Competitività e autore di “L’economia di ChatGPT. Tra false paure e veri rischi” (EGEA)