Fondazione Marisa Bellisario

LA FINE DEL “MAMMO”

Giulia Bifano*

Il diritto alla parità anche retributiva tra donne e uomini è uno dei principi fondanti della nostra cultura giuridica, sancito sin dal trattato di Roma del 1957 e dalla nostra Costituzione. Ciononostante, e a dispetto degli sforzi del legislatore comunitario e nazionale della direzione delle pari opportunità, i dati ci parlano ancora chiaramente di un mercato del lavoro iniquo non solo sul piano della parità retributiva, ma anche su quello dell’accesso alla carriera e del suo sviluppo.

Il superamento del gap che marca il confine tra la carriera di uomini e donne non è solo un fatto doveroso sul piano giuridico, ma una vera e propria esigenza di crescita economica: abbondano gli studi che confermano come all’aumentare del tasso di occupazione femminile, aumenterebbe il PIL del nostro Paese.

Il tema è vasto e le ragioni che rendono ancora attuale il “gender gap” molteplici e profondissime.

Per scegliere da dove partire, basta guardare all’elefante nella stanza: ciò che da sempre e per sempre distingue le donne dagli uomini e sino ad oggi è uno dei macigni più pesanti che le lavoratrici sono chiamate a gestire, restando culturalmente responsabili del compimento di scelte, valutazioni e rinunce che si addicono solo a loro. Stiamo parlando naturalmente della maternità, che tecnicamente distingue le donne dagli uomini per i soli aspetti inerenti la gestazione e, in alcuni casi, l’allattamento. Ma se queste sono le differenze sul piano reale, molte di più sono quelle sul piano culturale.

Senza scendere nei troppi esempi di come la genitorialità e gli obblighi che ne derivano siano diversamente intesi per madri e padri, è sufficiente pensare che a un uomo che dedica buona parte del proprio tempo all’accudimento dei figli ci si riferisce con l’espressione “mammo” e non con quella di papà. Insomma: i papà lavorano e si assicurano che l’iscrizione al torneo di calcetto avvenga in tempi rapidi, le mamme (o “i mammi”) si occupano di tutto il resto, naturalmente mentre lavorano assicurandosi di non sottrarre troppo tempo ai loro piccoli.

Un cambio di passo culturale è chiaramente doveroso affinché le donne si emancipino definitivamente dal ruolo stantio e anti-economico di angeli del focolare, perfino malsano nella misura in cui oggi scivola nella pretesa di una figura eroica capace di produrre sul lavoro, dare il bacio della buonanotte, preparare un pasto caldo tutti i giorni e magari avere sempre la messa in piega.

Se ancora non siamo pronti a intendere la genitorialità come un ruolo profondamente paritario e condiviso, il legislatore può aiutare.

Come? Con una riforma dei congedi capace di soffiare dalla finestra del diritto un vento che sposti le vele della cultura del lavoro, con l’indispensabile supporto delle imprese e dei role model – anche al maschile – che le abitano.

Dinanzi a questo tema il primo pensiero, si sa, va ai congedi facoltativi: certamente vale la pena di incoraggiare i genitori a fruirne nella misura e secondo la distribuzione giudicata più adeguata in ciascuna coppia. Senza nascondersi dietro un dito, bisogna però anche dire che si tratta di congedi non particolarmente attrattivi sul piano retributivo, pur apprezzando lo sforzo dell’ultima legge di bilancio di consentire un mese in più indennizzato all’80% per il padre o la madre.

Ma ha senso porsi una domanda che vada oltre: in un’Italia in cui il congedo obbligatorio dei padri dura il tempo di un selfie (10 giorni) e quello delle madri ben 5 mesi, mi chiedo se non sia possibile ripensare la disciplina dei congedi anche obbligatori nell’ottica di restituire a ciascun nucleo familiare la libertà, giuridica e culturale, di darsi regole proprie: alla madre la libertà di tornare al lavoro anche prima senza sensi di colpa, al padre la dignità di un ruolo affettivo ed educativo.

La domanda non è particolarmente creativa: diversi sono i Paesi, anche europei, che riconoscono sin dal principio una maggiore equità e libertà nella distribuzione dei carichi genitoriali.

Se l’obiezione – comunque scorretta – è quella di riferirsi a Paesi culturalmente lontani dal nostro, come quelli del Nord Europa, l’esempio della vicinissima Spagna aiuta. Dal 2021, i giorni di congedo dei genitori spagnoli sono equivalenti: madri e padri hanno diritto a 16 settimane di congedo indennizzate al 100%, di cui le prime 6 obbligatorie subito dopo la nascita.

Un ripensamento dei congedi anche obbligatori è possibile, per quanto scomodo.

Per comprenderne la bontà, si parta ancora una volta dai dati: senza scomodare il premio nobel Claudia Goldin, anche studi nostrani (Casarico-Lattanzio) confermano come in Italia, a quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri sono del 53% inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita. La percentuale di madri con contratti part-time è quasi tripla rispetto a quella delle altre lavoratrici.

Se questi non sono dati accettabili, che diritto e impresa facciano squadra per far nascere padri dalle ceneri dei “mammi”.

*Avvocata

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