Fondazione Marisa Bellisario

IL TRAUMA, LA VERGOGNA E IL DOVERE DI PORTARE AVANTI UN’IDEA DIVERSA DI PAESE

Mai avrei potuto immaginare di dedicare l’ultimo numero della Newsletter prima della pausa estiva alla caduta del Governo Draghi. “Draghicidio” abbiamo letto, “trauma” e “vergogna” le parole più usate per definire quanto è successo la scorsa settimana. «Nemmeno essere Mario Draghi è stato sufficiente» ha scritto l’amica Lucia Annunziata. Sufficiente per i partiti politici che in un’afosa giornata di luglio hanno fatto a pezzi la figura più influente del nostro Paese e la più autorevole all’estero – per provato curriculum e risultati (qualunque cosa se ne voglia pensare) – salvo poi dedicargli una standig ovation, coccodrilli con le lacrime in tasca. Forse dall’alto dei suoi meriti, Draghi sperava di riuscire a confutare la legge implacabile dei governi di unità nazionale: il suo è durato un anno, 5 mesi, 7 giorni, quello di Monti, per fare uno dei tanti esempi, durò appena 5 giorni di più. Perché qualunque congiuntura negativa, qualunque emergenza nazionale e internazionale, per i nostri partiti pensare in termini di Stato resta tanto, troppo faticoso e le intese larghe crollano al richiamo delle sirene elettorali.

Siamo e rimaniamo il Paese del “Gattopardo”: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Il punto però è che non sempre il contesto lo consente. E la levata di scudi a favore di Mario Draghi – noi per prime insieme a tantissime associazioni, imprenditori, sindaci – non era solo e tanto per l’uomo Draghi e per la visione nuova che incarnava ma anche per la garanzia che rappresentava in un momento in cui non c’è spazio per giochi di potere personali e personalistici né per incompetenze al comando. Oggi la Bce ci fa da scudo solo se siamo in regola con i conti e con il Pnrr, l’inflazione è tornata ai livelli del 1978, oltre 6 milioni di persone vivono in povertà assoluta, 3,5 milioni di giovani non studiano e non lavorano e la metà delle donne continua a restare a casa per accudire i figli. E i primi conti abbiamo già iniziato a pagarli con il prossimo decreto-aiuti contro il caro bollette che dimagrisce da 20 a 3 miliardi e con una credibilità internazionale ritornata a livello zero. D’altro canto, come spiegare al mondo che nel mezzo di una tempesta perfetta per l’Europa, con guerra, inflazione, stagnazione, e ripresa della pandemia, la crisi di governo in Italia si è consumata sull’inceneritore dell’immondizia di Roma, sui tassisti e sulle concessioni balneari? Non si può e sappiamo anche noi che in ballo c’era ben altro.

In questi giorni di fiumi di parole, tre sono i meriti riconosciuti a Draghi: l’uscita dal tunnel più buio della pandemia e del Pil, la riconquista del prestigio internazionale per l’Italia e di un ruolo di leadership in Europa, la fermezza di una linea euro-atlantica di fronte all’invasione russa dell’Ucraina. Nessuno ha citato quello che per me, ovviamente, è il più importate: un nuovo corso per la parità. Il Premier aveva già scandito un approccio moderno, innovativo e sfidante nel suo discorso programmatico quando – dopo aver giustamente toccato i temi imprescindibili dell’occupazione femminile e del welfare – ha parlato di “condizioni di carriera”, competitività e salari. E quando ha citato le quote di genere, dicendo – come sosteniamo sempre – che bisogna andar oltre. Mai nessun Presidente del Consiglio aveva dedicato tanto e tale spazio alla questione di genere. Non una “captatio benevolentiae” ma una convinzione precisa cui sono seguiti fatti concreti: il Family Act, la certificazione di genere, i fondi per l’imprenditoria femminile e per gli asili nido e tante altre misure che hanno reso la parità una questione centrale e trasversale. Per la prima volta nel Paese si è cominciato a parlare di strategia strutturale della parità.

E ora? In tanti parlano dell’eredità di Draghi, di un’agenda su cui mettere una croce alle urne quando si voterà e certamente i tanti che come me ci avevano creduto non accetteranno di buon grado di fare un passo indietro, di tornare alle nebbie delle promesse elettorali, del debito pubblico che riprende a lievitare e degli scontri quotidiani con L’Europa. E io spero che quei tanti – trasversali ai partiti e alle ideologie – tengano duro perché c’è una Nazione che è più importante di una Regione, un Partito, un individuo.

Credo che lo scarto di questa crisi, l’elemento nuovo per un Paese ormai avvezzo e quasi anestetizzato ai cambi di poltrone e governi è l’investimento emotivo, la ribellione che ha suscitato non tra elettori di partiti rivali ma tra due visioni, due modi di essere e pensare. Da una parte, quegli italiani – quelli come noi che hanno “tifato” per Mario Draghi dall’inizio della sua avventura – orgogliosi del buono che c’è in noi, della creatività, della bellezza, della serietà e competenza che riusciamo a esprimere. Quella parte che esulta quando facciamo il balzo record del Pil in Europa o finiamo in testa alle graduatorie per numero di donne nei CdA o nelle vaccinazioni. E quella parte ci ha creduto davvero che Mario Draghi inaugurasse una nuova stagione di primati e successi, non più non solo mafia, pastasciutta e mandolino. E poi c’è la parte provinciale, quella che pensa solo al proprio orticello, che pretende favori e favoritismi, che del resto del mondo non si cura e nemmeno del resto del Paese purché gli arrivi il reddito di cittadinanza o lo sconto sull’auto nuova. La parte “mors tua vita mea” su cui si eserciterà la fantasia elettorale di molti partiti: più promesse e più voti e ai conti pubblici ci penseremo dopo. E se in quell’afosa giornata di luglio è questa parte ad aver vinto, io non mi rassegno e farò tutto quanto è in mio potere perché so che c’è di più, che l’Italia merita di più. E mi auguro che il barlume di speranza acceso da un signore di nome Mario Draghi non si spenga. Teniamolo acceso per dare un futuro a questo Paese.

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9 commenti su “IL TRAUMA, LA VERGOGNA E IL DOVERE DI PORTARE AVANTI UN’IDEA DIVERSA DI PAESE”

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