Da un po’ di anni, all’8 marzo si è affiancato il 25 novembre: due Giornate Internazionali, due momenti di riflessione in cui siamo sommersi da dati, numeri, impegni, dichiarazioni solenni e solenni giuramenti. Noi donne siamo francamente stanche perché la disparità e la violenza la subiamo o la vediamo giorno dopo giorno, 365 in un anno. E forse poco si è compreso quanto queste due Giornate Internazionali siano legate a filo doppio: parità e violenza sono due facce della stessa medaglia. È un dolore anche solo pensarlo ma è innegabile. Finché concretamente, quotidianamente e culturalmente le donne non avranno “pari dignità” e valorizzazione, pari opportunità e considerazione, finché ogni singola donna non verrà giudicata competente, credibile, forte e capace come e quanto un uomo, queste due Giornate continueranno a esistere e a certificare una democrazia e una società dimezzate.
Per giorni abbiamo letto numeri a dir poco atroci e che testimoniano un fallimento. Se in soli 11 mesi ci sono già stati 109 femminicidi, se le vittime di violenza sono 89 al giorno, se solo il 15% delle donne denuncia gli abusi prima di venire uccisa, se le misure di sicurezza e quelle facoltative vengono applicate in pochissimi casi e nelle sentenze dei tribunali si continua a parlare di “raptus” “gesto di rabbia” o “tempesta emotiva” e si legge che le vittime “provocano” o si parla di “relazioni burrascose” davanti ai maltrattamenti, qualcosa non sta funzionando. Certamente, abbiamo lavorato tanto sulle norme che inasprivano le pene e introducevano nuove fattispecie di reato, troppo poco sul sentire comune e su una cultura che resta patriarcale e misogina.
Cosa fare, come agire davanti a numeri che ogni anno diventano sempre più un pugno nello stomaco intollerabile? Sappiamo che le Ministre Elena Bonetti, Luciana Lamorgese, Marta Cartabia, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini stanno lavorando a un pacchetto di norme da portare al Consiglio dei ministri per una maggiore protezione delle donne vittime di violenza. Saranno previsti anche nuovi aiuti economici, che potenzieranno o affiancheranno il reddito di libertà – che già mette a disposizione fino a 400 euro al mese per un anno – e la nuova misura del microcredito di libertà, che fa leva sull’educazione finanziaria e investe sulle donne. E già questa è una buona notizia e una novità: che delle ministre uniscano forze e competenze per affrontare e vincere la battaglia contro la violenza e che finalmente questa battaglia venga affrontata anche sul fronte economico. Perché quel 15% di denunce ci dice due cose: che le donne non si fidano delle istituzioni che dovrebbero proteggerle – e su questo fronte bisognerà lavorare tanto anche per garantire interlocutori specializzati e competenti sul tema – e che la paura di ritrovarsi da sole, con dei figli, senza alcuna fonte di sostentamento è più forte della paura di perdere la vita. E questa è una verità troppo atroce da accettare.
Una verità che mi ha convinto a condividere e lanciare pubblicamente una proposta meditata da tempo: i beni confiscati alle mafie siano riconvertiti in centri di accoglienza, luoghi di formazione e di preparazione al lavoro per le donne che vogliono riscattare la propria esistenza dopo anni di soprusi. Un progetto che potrebbe ancora una volta vedere l’impegno determinato di tutte le Ministre.
È innegabile: l’indipendenza economica delle donne è la prima e forse la più efficace forma di lotta alla violenza di genere. Senza empowerment femminile nessuna norma si rivelerà adeguata nel lungo periodo, nessun deterrente, punizione o inasprimento di pena servirà allo scopo. Non forme di assistenzialismo ma la possibilità di lavorare e di poter mantenere dignitosamente se stessa e i propri figli. Garantire questo è un dovere di un Paese che vuole definirsi civile.
Possiamo e dobbiamo affrontare il tema della violenza di genere anche sul fronte della cultura e dell’educazione, coinvolgendo scuole, famiglie, media. Ma la lotta alla violenza passa per la parità e la parità si misura con indici concreti. Quando i tassi di occupazione, gli stipendi, i ruoli di leadership economica e politica maschile e femminile si equivarranno, la cultura piano piano seguirà. Il cambiamento culturale non precede ma segue quello fattuale. Bisogna certamente lavorare a entrambi, quotidianamente e parallelamente. Ma non illudiamoci che la cultura possa cambiare quando i fatti testimoniano crudamente che uomini e donne non sono pari.
Abbiamo tanta strada da fare ma le donne vittime di violenza non aspettano. Dobbiamo correre.
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