di Margherita Boniver*
È stato un finale catastrofico ‒ un’accelerazione della ritirata che ha lasciato in “dote” ai talebani un arsenale di 80 miliardi di dollari ‒ ma sarebbe un errore cancellare quanto fatto in Afghanistan. Oggi certamente il Nation building tentato in questi vent’anni sembra obsoleto e nelle agende internazionali non esiste la più remota ipotesi di replicare quel modello ma ciò non toglie che è stato un processo estremamente proficuo e positivo per milioni e milioni di afgani. Abbiamo aperto ospedali, scuole, imprese ma, soprattutto, abbiamo portato istruzione, formazione e un modello di valori e di vita che ha risvegliato la coscienza di una parte del popolo afghano. I tentativi disperati di fuga da Kabul così come i tantissimi che si oppongono al regime talebano mostrano una società divisa in sensibilità religiose, culturali e politiche diverse. Non si può tacciare l’occidente di ingenuità, piuttosto bisogna guardare a quello che il nostro intervento ha prodotto in vent’anni e farlo senza dimenticare il contesto in cui abbiamo operato e la lunga e dolorosissima storia del popolo afghano. Abbiamo cercato di condividere con loro la parità di genere, la libertà intellettuale, le regole basilari del consenso, la tripartizione dei poteri e i progressi fatti sono incancellabili. Pensiamo solo al sistema giudiziario, che l’Italia aveva il compito di riformare. Prima dell’intervento occidentale, soprattutto nelle zone rurali, si facevano solo processi sommari: si riunivano gli anziani e decidevano a naso. Di solito per compensare un torto, la famiglia che soccombeva in giudizio doveva dare una bambina di dodici anni al ricorrente cui veniva data ragione. L’Italia ha messo a disposizione del popolo afghano eminenti giuristi che hanno formato tutto l’apparato giudiziario, dai docenti di diritto ai giudici, dagli avvocati agli agenti di polizia.
Detto questo, oggi ci troviamo di fronte a una situazione complessa, aggravata certamente dal disastro della fuga precipitosa che non ha lasciato una agenda politica chiara. Sul fronte interno, non si può fare affidamento sull’Alleanza del Nord: seppure armati di grande coraggio non possono competere con l’arsenale dei talebani, la loro resistenza, seppur con il sostegno occidentale, non durerebbe una settimana. Ma non dobbiamo nemmeno cadere nell’errore politico che ripetiamo da vent’anni: non dare importanza strategica e politica a quello che si dice e si fa a Islamabad. I prossimi passi devono coinvolgere la diplomazia pakistana.
In tema di azioni umanitarie, purtroppo bisogna negoziare con chi ha preso il potere, parlare con i talebani. Draghi ha fatto bene a proporre l’utilizzo di fondi straordinari ma sono comprensibili le posizioni della Turchia che ha accolto tre milioni di profughi siriani, e i timori di un Paese piccolo come Grecia o del Pakistan, dove già dagli anni Ottanta c’è una comunità di tre milioni di profughi afgani. L’Europa su questi temi continua ad andare in ordine sparso ma non ho dubbi che l’Italia metterà in piedi una rete di solidarietà diffusa sul territorio, confermando la straordinaria generosità con cui siamo intervenuti in questi vent’anni. E certamente proteggere, difendere e garantire un futuro di libertà alle donne afghane rappresenta il primo dovere per ciascuno di noi. Non c’è un Paese che non abbia menzionato come priorità quella di dare asilo alle donne che rischiano tutto, come minimo i tribunali della sharia. E l’Italia ‒ con la sensibilità della sua società civile, con associazioni come la Fondazione Marisa Bellisario che è da sempre è impegnata in Afghanistan ‒ farà la sua parte egregiamente.
* già Ministro e Sottosegretario di Stato al Ministero degli Affari Esteri
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