di Laura Parlavecchio*
Il padre onnipotente e quello che non vuole esserlo in realtà sono le due facce di un’unica istituzione: la Famiglia patriarcale.
Cosa ci fosse prima è ridotto a mito. Potremmo dire che la storia della famiglia sia stata scritta da vincitori di una guerra tra i sessi arrivata fino ad oggi, perpetuando una disarmonia psicologica individuale e sociale.
Abramo nella Bibbia è il primo dei patriarchi, e il patriarcato giunge a imporre un mondo dove il donatore di sperma possa dominare sulle nascite, agendo come un Dio, dall’esterno e dall’alto.
In questo ordine, le donne detengono solo il potere della gravidanza e ogni altro viene annullato: non sono considerate persone, ma “veicoli” che gli uomini usano per generare i “propri figli” e creare altri uomini.
Il Patriarcato non si è sovrapposto al binarismo “uomini/donne” “padre/madre”, ma lo ha creato. È un sistema di valori che premia l’ordine, il controllo, l’imposizione di regole nette sulle realtà femminili connotate come caotiche, mostruose e devianti. Gli uomini dominano la materia, cioè la mater, attraverso regole e strumenti studiati a tavolino per tenerla soggiogata e a distanza. Sul caos della riproduzione vanno esercitate la competenza e la disciplina maschili, per evitare che le donne detengano la sovranità del proprio corpo. Le donne non hanno diritto di parola neanche sul destino dei figli, che il padre può uccidere senza tema di essere giudicato e condannato, perché giustificato dal ruolo. Eliminare un figlio non desiderato perché non all’altezza delle aspettative, perché disabile, o perché semplicemente femmina, serve al patriarca a rifiutare il proprio coinvolgimento biologico e la responsabilità morale nel processo riproduttivo, proiettandole sulla donna, che viene quindi ritenuta unica responsabile di ogni fallimento a causa dei suoi “vizi e imperfezioni”.
Nonostante la condizione di apparente sudditanza della donna, l’istanza femminile nel corso dei secoli è riuscita a far sentire la sua voce, rivendicando la dignità e peso nella gestione della famiglia, partendo dalla gestione del proprio corpo e soprattutto della propria mente. Proprio l’inclinazione maschile alla belligeranza ha fornito alle donne tempi e spazi per sperimentarsi in ruoli prima sempre negati a priori. Da lì è partita la richiesta del riconoscimento del proprio valore nella famiglia, nel lavoro, nella cultura, nella scienza, nella politica.
Il processo di emancipazione della donna, con la legittima aspirazione alla parità, è osteggiato dalla struttura patriarcale, che, nonostante i cambiamenti sociali, ricompare in forma deteriore nelle figure dei padri assenti e in forma criminale nelle figure degli uomini maltrattanti.
La vaporizzazione della figura del patriarca in quella del padre assente risponde al vecchio copione che prevede la colpevolizzazione, la svalutazione, l’abbandono della donna (e del prodotto del concepimento), fino alla sua eliminazione fisica, allo scopo di ricondurla nel ruolo scelto per lei all’interno della famiglia patriarcale.
La riconquista femminile della propria sessualità con la maternità consapevole viene strumentalizzata dagli uomini, che non avendo più l’esclusiva decisionale, ne abbassano il valore, sminuendo anche il valore della donna stessa e dell’eventuale figlio generato al di fuori di regole consolidate.
Nonostante siano state promulgate leggi che tutelano le madri nubili, i figli nati al di fuori del matrimonio etc., nel profondo dell’animo maschile il modo di vedere e di usare le donne non si è modificato. Ne è prova lo sterminato numero di relazioni che mutano velocemente.
Le relazioni affettive di un tempo, rigidamente regolamentate, non erano per questo più sane. Pensiamo ai “matrimoni riparatori” (abrogati nel 1981), dove la donna era costretta a sposare anche il suo stupratore. Anche l’abbandono di un neonato per onore e il cosiddetto delitto d’onore, abrogati dalla Legge, permangono nei comportamenti di singoli, psicologicamente legati a un codice arcaico di comportamento fondato sull’insicurezza nel dominio dell’identità.
Nella società consumistica le relazioni vengono vissute in modo superficiale e ambivalente e ciò impedisce la definizione di se stessi nel profondo innescando crisi di identità.
Mentre prima il ruolo del padre nella sua più alta accezione era trasmettere la Legge della parola, insegnare il concetto di LIMITE basilare per stabilire una sana relazione con se stessi e con gli altri, l’identità mancata provoca una minorizzazione dell’adulto, ovvero l’incapacità ad assumersi la responsabilità di educare causando confusione delle generazioni.
Ovviamente, della deresponsabilizzazione dell’uomo viene incolpata la donna.
Nonostante gli ostacoli posti all’emancipazione femminile, l’autonomia economica consente alla donna l’autodeterminazione e la possibilità di educare la prole con una visione più ampia, per costruire un mondo nuovo, dove ci sia una reale parità di valori nei due sessi e il rispetto reciproco nel riconoscimento della complementarità.
*Psichiatra Psicoterapeuta
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