di Luca Iosi*
Sono trascorsi trent’anni dalla rivoluzione del 1992. Dieci anni in più del fascismo, un terzo di secolo – meno dieci anni – e l’anomalia politica italiana continua.
Due parole sono assenti o residuali dal suo dibattito: cristiano e socialista.
È un po’ come se in un mercato di beni essenziali gli uomini trovassero ogni prodotto per la loro sopravvivenza, anche il più bizzarro e superfluo, ma non il pane e l’acqua.
Cosa è accaduto? Che per un concorso di fattori una delle derivate del pensiero socialista, il movimento comunista, riuscì a sottrarsi nel nostro Paese al processo delle classi dirigenti seguito al termine della Terza Guerra Mondiale – la Guerra Fredda – e a trasformarsi in testimone dell’accusa e poi in reggente del sistema che ne sarebbe seguito.
Nacquero così un’infinità di sigle partitiche capaci di dragare ogni fantasia botanica e faunistica per rimuovere l’origine nominale e la memoria storica di quel movimento, comunista, anche se nei primi tempi nemmeno la sede fondativa, Botteghe Oscure, fu cambiata; e ancor meno i volti di coloro che avendo sbagliato se non tutto, molto, delle loro visioni del mondo si candidavano a interpretarne e guidarne il futuro. Così, non paghi, procedevano a cannibalizzare e fagocitare anche le culture “acquisite”, in primis quella riformista, per annetterle in un nuovo confuso pantheon fatto di eroi sottratti agli avversari (nemici nella loro accezione) come fu per Falcone e Borsellino, procedendo alla continua, sistemica, scientifica alterazione e risistemazione della storia a uso propagandistico e omissivo.
Oggi, trent’anni dopo, il nostro Paese è sventrato. Gli anni ottanta sono un apostrofo tra il plumbeo ricordo dei settanta di piombo e il cupo dipanarsi dei novanta, in una decadenza che ci ha visto perdere la ricchezza costruita dal dopoguerra (dall’ingegno di un Paese che ha sempre fatto di necessità, l’assenza di materie prima, virtù, sfoderando il suo talento manifatturiero); così: chimica, telecomunicazioni, industria automobilistica, persino moda, sono alcune delle vertebre che la nostra colonna industriale portante ha via via perduto, liquidato, distrutto; nell’infamia che queste “cessioni” servissero a spegnere il debito degli infausti anni ’80 (che in verità avevano prodotto un debito, sano e sostenibile, necessario ad abbattere un’inflazione a due cifre – dal 16 al 4% – e la protesta sociale attraverso cassaintegrazioni, prepensionamenti e ammortizzatori sociali in un tempo di conflitti sociali violentissimi, portando il nostro Paese dal 17° al 5° del mondo). E a conclusione di tutte queste svendite gli apprendisti stregoni ci hanno trascinato al 152% di debito pubblico – quasi raddoppiandolo – dando luogo a un sistema formativo indegno, a una sanità collassante, dopo aver distrutto infrastrutture pubbliche, commerciali, industriali, dei trasporti e aver mortificato e dissipato ogni politica di autonomia energetica.
Alle nuove generazioni che verranno andranno raccontate puntualmente le infamie di questi assassini di democrazia e benessere che hanno ucciso una storia, hanno raccolto le disponibilità delle modestie morali e umane di chi ha consegnato la propria origine per una carezza di accettabilità sociale, e hanno calcato per tre decenni la scena impartendo lezioni di mercato, di politiche sociali e di progresso.
In un mondo nuovo, occidentale, che nasce dal fiume della rivoluzione cristiana e trova nel socialismo la sua prassi politica, umanitaria e accogliente, questa parola, socialista, non potrà mancare; libera e liberata dal giogo dei suoi aguzzini, più o meno giacobini, disfatti, un’altra volta, dalla storia.
*Consigliere di amministrazione Fondazione TIM
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