Fondazione Marisa Bellisario

CONTRO LA DERIVA, RIPRENDERSI LA RETE

Da settimane, per una ragione o per l’altra e per vicende molto diverse tra loro, il centro del discorso collettivo sono i social. Non un argomento nuovo, certamente, ma l’accelerazione subita ha portato anche l’Agcom a pubblicare le linee guida per gli influencer mentre si continua a discutere se e come il legislatore possa intervenire a correggere le più evidenti storture di quello che sembra diventato un mondo a sé.

Shitstorm, hater, fakenews, vi siete chiesti come mai le parole che incorniciano questa gigantesca questione sono tutte angloamericane? Non ne faccio una questione sociologica ma credo che tradurle letteralmente comincerebbe a porci seri problemi di coscienza e preferiamo proseguire così, sull’onda di un grande, inevitabile, inarrestabile fenomeno collettivo. Senza interrogarci troppo. Poi, una donna – non un’influencer, non una TikToker ma una modesta ristoratrice di Lodi – prova a giocare come tutti e rimane schiacciata da quello che non è più un gioco. Perde la vita. E già questo dovrebbe silenziare tutto. Macché. Si continua a difendere il legittimo diritto dei debunker, che ho imparato essere nient’altro che i paladini della verità social. Un mestiere tanto redditizio quanto ridicolo in un mondo, come quello dei social, fondato sulla compravendita di follower, su plagi, troll russi che mettono like, recensioni finte, finti sorrisi, finte vite. Un mestiere che più che con la verità ha a che fare con la gogna e che sulla gogna costruisce la propria personale notorietà e ricchezza.

«Vediamo, e incontriamo, la violenza anche nella vita quotidiana. Anche nel nostro Paese. Quando prevale la ricerca, il culto della conflittualità. Piuttosto che il valore di quanto vi è in comune; sviluppando confronto e dialogo. […] Penso anche alla violenza verbale e alle espressioni di denigrazione e di odio che si presentano, sovente, nella rete. […] Penso alla pessima tendenza di identificare avversari o addirittura nemici. Verso i quali praticare forme di aggressività. Anche attraverso le accuse più gravi e infondate. Spesso, travolgendo il confine che separa il vero dal falso». Sono le parole del Presidente Mattarella nel suo discorso di fine anno. Le condivido tutte e bene ha fatto il Presidente ad affrontare questo problema.

Odiatori, delatori esistono dalla notte dei tempi ma forse mai avevano avuto un detonatore tanto potente. L’odio, l’invidia, il risentimento, la vendetta sono sentimenti nati con noi ma oggi sono armati, indistinti, furiosi. Non c’è più un destinatario – conosciuto, vicino – ma una categoria – le donne, gli immigrati gli omosessuali – e soprattutto coloro che la pensano diversamente da noi. Che possiamo insultare, aggredire, ridicolizzare, smascherare. Una normalizzazione dell’aggressività che miete quotidianamente nuove vittime ma che ha ogni giorno nuovi adepti. Perché aggredire è più facile che spiegare. E perché un ragionamento pacato non frutta like, l’ossessione di questi tempi. Brutti tempi.

Non sapremo mai le profonde ragioni del suicidio di Giovanna Pedretti e di tanti altri casi del genere ma dovrebbero invitarci al silenzio – anche e soprattutto social – e alla riflessione. Sulle tragiche conseguenze del mondo del falso su quello vero o su quel che ne resta. Sull’uso delle parole. Un tempo, si parlava di “politicamente corretto” – anche questa definizione importata – ma oggi non basta più. Forse dovremmo tutti parlare di un uso civilmente responsabile e umanamente rispettoso. E sulla deriva di quella rete nata come straordinaria opportunità per ampliare le nostre idee e orizzonti, confrontarci col resto del mondo, imparare. Il web, i social sono solo un mezzo e lo stiamo sprecando, mercificando le nostre vite e scagliando sulla piazza virtuale tutte le nostre frustrazioni. Un’occasione di guadagno facile o una fuga dalla realtà e dalle relazioni vere. E invece può essere ancora quel fiume in cui scorrono intelligenza e ironia, conoscenze e contatti. E sapere. Non rinunciamoci.

E soprattutto insegniamo ai nostri figli – in famiglia ma anche a scuola – cosa era la vita prima dei social. Parliamo con i ragazzi, spieghiamo loro che le parole, anche se buttate sulla rete, hanno un senso e un peso. Che la vita non è fatta di like ed è molto più complicata di quanto appaia in una foto o una storia e che vale la pena di essere affrontata e vissuta. Che la popolarità non è il metro della felicità. Che un tramonto non va postato ma guardato con emozione. Spetta a noi, è una nostra responsabilità. Siamo noi i “migranti digitali”, noi portiamo il bagaglio di un mondo analogico in cui un risultato passava dallo studio, da esperienze, da incontri, da sacrifici. Nulla dovuto né scontato. E il più delle volte non aveva altro palcoscenico che la nostra cerchia ristretta di parenti e amici. Noi dobbiamo essere il ponte di quel mondo lì, essere capaci di spiegare le differenze tra reale e virtuale a chi è nato in questo mondo qui in cui il confine è sempre più labile e indistinguibile.

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