Fondazione Marisa Bellisario

COME PRESERVARE IL FUOCO SACRO DELL’UMANITÀ?

di Armando Siri*

L’Intelligenza Artificiale contiene in sé un germe intrinseco di contraddizione. La presunzione di poter accostare una capacità così profondamente umana, che appartiene appunto alla sfera dell’intelligenza, dell’intuizione, dell’emotività ma anche della razionalità a quella così fredda, impersonale, distaccata, asettica e disumana dell’artificialità, fondata sugli algoritmi. Dovrebbe essere così semplice, direi quasi intuitivo e scontato constatare l’inadeguatezza della macchina nel sapere riprodurre quella tanto imprevedibile quanto imperfetta sintesi di cuore e cervello, che con equilibrio ed unità, lavora all’unisono per ricordarci ogni giorno chi siamo: uomini e non macchine programmate all’infallibilità à la carte.

Come si può anche solo immaginare che una macchina sappia leggere dentro le cose, dentro le emozioni, dentro il più grande testo sacro, quello dell’anima? Cerchiamo di immergerci nel significato profondo della parola intelligenza. Essa deriva dal latino “intus-legere”, ovvero la capacità di “leggere dentro” o di “leggersi dentro”, proprio come facevano i grandi filosofi dell’antica Grecia quando si interrogavano sul senso della propria missione e sui segreti dell’universo, aprendo da allora numerosi sentieri di ricerca sulla Verità. La sapienza antica ha sempre insegnato, tramandato e testimoniato cosa significa essere intelligenti, attraverso il prezioso libro della storia e anche al di là della ricerca filosofica in senso stretto. Gli uomini del passato, ma anche quelli di un presente che probabilmente non siamo più in grado di vedere e apprezzare, sono espressione di quella intelligenza del cuore che li aiutava a destreggiarsi nelle trame della vita, senza il supporto di uno studio specifico o di quella che viene genericamente definita “cultura”. Intelligente era il contadino che conosceva i ritmi della natura e sapeva attendere il momento propizio per la semina, la raccolta o la vendemmia. Per il contadino la differenza stava nell’avere un campo colto o incolto: dà lì la logica della coltura, del far fruttare un campo, del saperlo lavorare e quindi, estensivamente, intelligente o colto era colui che sapeva utilizzare al meglio i propri talenti, le proprie conoscenze anche e soprattutto pratiche in rapporto alla natura. Intelligente era l’artigiano che dalla pasta di vetro, dalla sua cottura e dalla conoscenza dei suoi tempi di lavorazione, sapeva trarne un meraviglioso lampadario. Intelligente era colui che mischiando paglia e sabbia all’argilla cuoceva i mattoni con cui costruiva una casa, tempio per eccellenza dell’Uomo. Allo stesso modo, l’intelligenza del cuore è quella che permette a una madre di saper cogliere, prima ancora che il figlio abbia manifestato un pensiero o un disagio, esattamente qual è quella cosa di cui il figlio, in quel preciso momento, ha bisogno: una parola di conforto, una carezza o magari un rimprovero. L’esperienza, la relazione, l’efficacia di una comunicazione empatica, la dimensione umana e sociale restano ancor oggi i punti cardine su cui si fonda qualsiasi rapporto di amore, di amicizia, di parentela o lavoro. Un insieme di valori cardine su cui ruota il mondo. Mi piace pensarlo proprio così. Un asse portante del cosmo, di quell’ordine così naturale e per nulla artificiale, nel quale il motore umano è mosso dalla forza propulsiva dell’amore per sé stessi e per gli altri, da quella capacità di sapere empatizzare con l’altro, con quell’uomo o quella donna nel quale ognuno di noi può trovare una parte di sé, più o meno apprezzabile a seconda della circostanza, ma pur sempre vera, concreta, tangibile e dotata di anima. Una meravigliosa imperfezione umana.

Tornando dunque alla domanda iniziale, come può una macchina assolvere a una funzione così profondamente umana? Come può una macchina, per quanto programmata a rispondere a ogni domanda o esigenza pratica, soddisfare una necessità emotiva e relazionale?

Queste potrebbero essere le prime di una serie interessante di domande che abbiamo il dovere di porci per decifrare le informazioni che ruotano intorno all’Intelligenza Artificiale. Il tema è ampio si diceva. Oggi sono tante le funzioni di questa nuova disciplina che di fatto possono aiutare l’uomo nella risoluzione di alcune incombenze quotidiane, ma la deriva su cui in pochi pongono l’attenzione è proprio quella che potrebbe portare l’IA a sostituire e occupare non soltanto posizioni lavorative umane ma anche di tipo relazionale.

Pensate solamente a cosa potrebbe accadere se, al posto di un essere umano in carne e ossa per accudire un genitore anziano, ci fosse un efficientissimo robot pronto a coprire ogni incombenza pratica e affettiva. O ancora, pensiamo a come possa essere accolta una diagnosi di cancro se letta da una macchina che, senza il filtro dell’umanità, ha appena diagnosticato e refertato questo tipo di malattia. Cosa può provare un uomo di fronte a tutto ciò? La deriva verso un mondo sempre meno empatico e relazionale ma sempre più asettico e dipendente dalla tecnica non è qualcosa di fantascientifico. Al contrario, è qualcosa di pericolosamente reale. E di fronte a questi scenari che sembrano inarrestabili, è necessario che la politica e ogni singolo individuo si pongano delle domande ma soprattutto è fondamentale che ci sia la consapevolezza di cosa sta accadendo. Come faremo a preservare il fuoco sacro dell’umanità?

*Giornalista

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