Fondazione Marisa Bellisario

AGIRE COME UN CORPO SOLO

Ho pensato e ripensato al “nostro” 8 Marzo e, tra eventi e ricorrenze – oggi incontro gli studenti di Tor Vergata, venerdì sarò al Quirinale con il Presidente della Repubblica, un invito che ogni anno mi commuove – ho deciso di lasciare un nostro segno attraverso un numero speciale di Avanti Donne. Ho chiamato a raccolta tante amiche nonché personalità di prestigio nel panorama delle istituzioni, della cultura, dell’economia, della politica e del giornalismo. Hanno risposto tutte con generosità, offrendo dati, letture, idee, soluzioni e auspici. Le ringrazio di cuore.

Leggendo i loro contributi, si snoda un racconto che ci vede ancora indietro, ancora “diverse” dagli uomini in ogni ambito. Una nota positiva, però è lampante. Da un po’ di tempo a questa parte, infatti, ragionare sulle enormi disparità che permangono, in Italia e nel resto del mondo, non è più solo “affare da donne”. Nel senso che nello scorrere del tempo, mi accorgo come sia ormai radicata la consapevolezza che il gender gap è una questione vitale e trasversale, che mina la crescita e la sostenibilità delle nostre società ed economie e non solo la dignità del genere femminile. Pensateci, non è un dettaglio di poco conto. Non lo è per me, cresciuta quando quelle femminili erano battaglie di genere, il nostro. Non è più così o almeno non solo così.

Analisti, economisti, sociologi, esperti di ogni ordine e grado, seppur uomini, hanno con onestà intellettuale decretato inderogabilmente che il divario di genere ci riguarda tutti e tutte. Riguarda la sopravvivenza, la prosperità, la crescita, la sostenibilità delle società ed economie mondiali. Quindi bisogna occuparsene, estirpare gli ostacoli economici, sociali e culturali alla piena e paritaria partecipazione delle donne. Dovunque. Non solo, bisogna riconoscere anche meriti, risultati e traguardi di quelle donne che la storia ha voluto nascondere – non dimenticare ma proprio rintuzzare volutamente. È un epocale e grandioso tentativo di ricostruzione culturale dalle fondamenta. Per leggere il presente e costruire il futuro servono occhiali nuovi, una visione non di parte così come è stata fin qui scritta.

Ma parlo di “tentativo” non a caso. Perché se dalle intenzioni e dai ragionamenti scendiamo nella realtà delle cose, c’è poco da stare allegri. Un numero su tutti: 2090, l’anno in cui, secondo il World Economic Forum, verrà raggiunta la piena parità di genere in Europa. E un altro, che continua a mordere la crescita italiana: una donna su due lavora, una su tre al Sud, ultimi in Europa, 25 punti percentuali indietro alla Germania. E un dato ancora peggiore sono quegli otto milioni di inattive, donne che il lavoro non lo cercano nemmeno.

C’è da rimboccarsi le maniche, c’è da cambiare direzione alle nostre politiche pubbliche, c’è da rivoluzionare anche la narrazione della questione femminile in Italia, ancora troppo spesso fatta da uomini. C’è da abbattere stereotipi e pregiudizi e da colonizzare un mondo, quello delle nuove tecnologie, in cui si giocheranno le partite del futuro.

Tema politico, economico, culturale si intrecciano indissolubilmente in un circolo ora vizioso e che dobbiamo trasformare in virtuoso. Come? Un conto è saperlo, e lo sappiamo, un altro è mettere in atto tutte quelle piccole a grandi rivoluzioni che ridisegnino il terreno di gioco. Là conta prima di tutto la volontà politica e per questo che finalmente alla guida del Paese ma anche dell’opposizione ci siano due donne è un passo avanti decisivo. E sbagliano quanti fanno le pulci all’impegno per le donne di due donne. Oramai la disoccupazione femminile o la mancanza di infrastrutture di welfare non sono temi femminili ma di crescita sostenibile. Risolverli non significa fare il bene di un genere ma di un Paese che non cresce e il cui sistema di welfare non sarà in grado di sostenere un tasso di natalità tanto basso.

E qui si legge l’intreccio più stretto tra politica, economia e cultura. Se finora, un esecutivo dopo l’altro – da decenni a questa parte e di ogni colore politico – hanno sottovalutato la gravità degli indici di disoccupazione femminile, se non hanno dato peso alle dinamiche distorte che hanno portato a un così ampio esodo femminile dal mondo del lavoro è anche perché le donne hanno rappresentato il più grande ammortizzatore sociale del Paese. Non siamo in grado di creare un numero sufficiente di asili? Nessun problema, ci sono donne disposte a restare a casa o chiedere un part time per occuparsi della prole. Il punto è che questo meccanismo non funziona più, perché non esiste più la società che l’aveva partorito. Gli angeli del focolare si sono estinti e quelli che restano sono furiosi! Quella di stare a casa, di non lavorare non è più una scelta ma una necessità sofferta, un’imposizione odiosa e anacronistica. L’indipendenza economica è oggi valore e necessità insieme, bene lo sanno le tante donne vittime di violenza. E se non è compatibile con la creazione di una famiglia, se il Paese non consente di fare figli e lavorare, allora si smette di farli. Una spirale al ribasso non più sostenibile.

E qui torno al 2090 perché mi ricorda quei 50 anni che la Banca d’Italia stimava ci sarebbero voluti per raggiungere il 30% di donne nei CdA. Dieci anni dopo ampiamente superati. Le stime sono ragionevoli, si basano su tanti e importanti fattori ma non calcolano l’imponderabile. Ecco, noi siamo e dobbiamo essere quell’imponderabile. La ferma determinazione dei nostri intenti, la concretezza delle nostre azioni, il crescere delle ambizioni e consapevolezze può rappresentare quell’accelerazione che serve a un’evoluzione ineluttabile. Una tranquilla rivoluzione dal basso. Non di un manipolo di facinorosi ma della metà della popolazione, quella femminile. Abbiamo le competenze, per non parlare della forza, per portarla avanti. Stiamo iniziando a comprendere, finalmente, che ci serve il potere e cominciamo a scalarlo con successo Resta un punto, discriminante. Siamo capaci di unità, “sorellanza”, coesione? Siamo in grado di metter da parte le differenze – sacrosante e inevitabili – così come le personalissime ambizioni al servizio di una causa comune? Sappiamo riconoscerla questa comunanza di intenti, farla nostra, abdicare a essa gli individualismi?

Da 36 anni lavoro per questo, mi auguro di sì. Quante volte, mi metto anche io nel novero, abbiamo pensato che all’indomani di un esaltante 8 marzo, di una giornata di inebriante consapevolezza, niente sarebbe cambiato? Merton parlerebbe di «profezie che si autoavverano»: pensando che nulla cambierà mai, stiamo già impedendo il cambiamento. Crediamoci, fermamente, e iniziamo ad agire come un corpo solo. È adesso, è il momento.

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