Fondazione Marisa Bellisario

VIVÀ, PER NON DIMENTICARE

Venerdì, in diretta dal binario 21 – quello da cui il 30 gennaio 1944 partì il treno che condusse 605 uomini e donne al campo di sterminino di Auschwitz – la senatrice Liliana Segre – una dei 22 che fecero ritorno – ha riaperto il cassetto della memoria e commosso più di 4 milioni e mezzo di italiani che hanno seguito l’evento su Rai1.

Il suo racconto straziante mi ha fatto venire in mente una storia che in pochi conoscono. È la storia di Vivà, matricola 31635, morta ad Auschwitz il 15 luglio 1943. Le sue ultime parole, riportate sulla targa ad Auschwitz, furono: «Dite a mio padre che non ho perso coraggio mai e che non rimpiango nulla». Suo padre era Pietro Nenni.

La figlia del leader socialista fu deportata nel campo di sterminio non perché ebrea ma perché fece parte della resistenza francese al nazifascismo. Se avesse rivendicato la propria nazionalità italiana, avrebbe evitato la deportazione, ma volle condividere il destino delle compagne francesi e non mettere in difficoltà il padre.

Pietro Nenni seppe della morte dalla figlia due anni dopo, nel maggio del 1945 direttamente da De Gasperi, avvertito dall’allora ambasciatore italiano a Parigi Saragat. Il leader socialista visse con il peso della mancata richiesta a Mussolini della grazia per Vittoria: «Avrei voluto telegrafargli per dirgli: “Facesse di me quel che vuole, ma salvi mia figlia”. Ma mi pareva di compiere un atto di viltà».

In occasione della Giornata della memoria e a ottant’anni dalla deportazione ad Auschwitz di Vittoria, la Fondazione Pietro Nenni ha prodotto e pubblicato il podcast La storia di Vivà. La figlia di Pietro Nenni nell’inferno di Auschwitz che ripercorre la vita della terzogenita del leader socialista. Disponibile sulle maggiori piattaforme, racconta la storia di Vivà, il suo impegno, la sua morte per la libertà, contro le violenze e i soprusi dei nazisti in Europa, dei fascisti in Italia.

Terza figlia di Pietro Nenni, Vittoria arriva a Parigi a 12 anni, raggiungendo con la madre Carmen e le altre tre sorelle il padre in esilio. Un anno prima – il 6 novembre 1926 – i fascisti invadono l’appartamento di famiglia, incontrano per le scale Vivà con la cartella sotto il braccio. Le strappano i libri di mano, glieli stracciano e minacciano di far fare a suo padre “la fine di Matteotti”.

Mora, slanciata, di una bellezza particolare e raffinata, Vivà si fidanza giovanissima con il francese Henry Daubeuf, che sposerà a soli 22 anni. I due vivono a Parigi e quando il cappio dell’occupazione nazista si stringe, matura in lei la convinzione che la Resistenza è l’unica scelta da fare. In tutta la Francia vengono create reti per far girare le informazioni e Vivà convince il marito a usare la tipografia di famiglia per stampare volantini antinazisti: le tipografie clandestine divengono il centro nevralgico della Resistenza. Nel 1942 il marito di Vivà accetta l’incarico di stampare dei volantini comunisti senza capire che è una trappola. Sarà arrestato e fucilato. Poco dopo, a forza di chiedere notizie alla prefettura, anche Vivà viene arrestata e portata al carcere di Romainville. Le si chiede di dichiarare la cittadinanza italiana in cambio della libertà. Vivà rifiuta. Non vuole mettere in difficoltà il padre che sta combattendo contro il fascismo ed è consapevole che Mussolini potrebbe usarla come arma di ricatto.

Il 24 gennaio 1943, le attiviste della Resistenza vengono trasferite alla stazione e caricate sul convoglio 31000. Nessuno ha idea della destinazione del treno. I campi di sterminio sono segreti ben custoditi dai tedeschi.

Nenni viene a sapere i particolari della prigionia della figlia da Charlotte Delbo Du­dach, compagna tra le poche superstiti. «Vivà è arrivata ad Auschwitz – scrive – il 27 gennaio 1943. Il suo gruppo era composto di due­centotrenta francesi; due mesi dopo era ridotto a quarantanove. Il viaggio era stato duro, ma esse erano lungi dal­l’immaginare che cosa le attendeva ad Auschwitz. Quando sono entrate nel campo cintato da reticolati a corrente e­lettrica, esse hanno avuto l’impressione fisica di entrare in una tomba. “Non usciremo più” ha detto Vivà. Ma poi è stata fra quelle che hanno ripreso coraggio. Sono state spogliate di tutto, vestiti, biancheria, oggetti preziosi, indu­menti intimi, e rivestite di sudici stracci a righe carichi di pidocchi. La loro esistenza si è subito rivelata bestiale. Sveglia alle tre e mezzo, appello alle cinque, lavoro dall’alba al tramonto in mezzo al fango delle paludi. Un vitto immondo e nauseabondo. Non acqua. Neppure un sudicio pagliericcio, ma banchi di cemento e una lurida coperta. Vivà ha reagito con ogni forza all’avvilimento fisico e, morale. Era fra le più intrepide e coraggiose». Vivà e le altre superstiti sono ammesse ai lavori forzati, a due ore di cammino dal campo. Lavorano nelle paludi, hanno le gambe gonfie, cadono in continuazione, ma sono ancora vive. Ogni giorno il corpo sembra soccombere all’abnorme sforzo fisico e alla costante denutrizione. Sulla testa di Vivà sta ricrescendo un ciuffo di capelli, forse ce l’ha quasi fatta, ma si ammala di tifo. Il corpo l’aveva già abbandonata e adesso anche la mente. Comincia ad avere allucinazioni, pensa di rivedere il padre, crede che il marito defunto sia tornato a casa sano e salvo, vuole nascondere l’orrore della realtà dietro a ricordi felici.

Muore il 15 luglio 1943. Le autorità tedesche scrivono sul certificato di morte: “causa: influenza”.

«Povera la mia Vittoria! Possa tu, che fosti tanto buona e tanto infelice, essere la mia guida nel bene che vorrei poter fare in nome tuo e in tuo onore».

Anche questo è il Giorno della Memoria.

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5 commenti su “VIVÀ, PER NON DIMENTICARE”

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