Un bimbo – alcune fonti dicono tre mesi, altre sei – lasciato da una donna nella sala di attesa di un ospedale di Aprilia. Se ne parla per un paio di giorni, non per il fatto in sé ma perché prima il Tg1 e poi altri telegiornali e giornali online trasmettono il video delle telecamere di sicurezza che mostrano la scena e il volto della donna. Il Garante della privacy, così come il coordinamento per le pari opportunità dell’Ordine nazionale dei giornalisti, prendono posizione contro la pubblicazione delle immagini. Il Garante pubblica un duro comunicato. «Le immagini – si legge – si pongono in evidente contrasto con le disposizioni della normativa privacy e delle regole deontologiche relative all’attività giornalistica, le quali – pur salvaguardando il diritto/dovere di informare la collettività su fatti di interesse pubblico – prescrivono agli operatori dell’informazione di astenersi dal pubblicare dettagli relativi alla sfera privata di una persona». Nel caso in questione le immagini erano state registrate per altre finalità e «non avrebbero dovuto essere trasmesse, in quanto lesive della dignità della donna, in un momento di particolare fragilità». Il Garante, quindi, invita organi di stampa, siti di informazione e social media «al più rigoroso rispetto delle disposizioni richiamate, astenendosi dall’ulteriore diffusione delle immagini e si riserva comunque gli eventuali interventi di competenza nei confronti delle testate che hanno violato le regole deontologiche». Il video è ancora online, ho controllato, solo che l’immagine della donna è oscurata.
Chiusa la questione. Se ne parla per un paio di giorni, molto meno di quanto era successo per la neonata lasciata in una culla per la vita a Monza, lo scorso agosto. E invece c’erano tanti e tali argomenti da affrontare, con serietà e coscienza. Il ruolo dell’informazione prima di tutto, questa deriva voyeuristica importata dai social che non lascia spazio alla riflessione, all’analisi, all’informazione vera e propria. Alla compassione. Perché, invece di mostrare il video, non si è parlato, e spiegato, quali sono le alternative a un simile gesto? In quanti conoscono il numero verde di SOS Vita che supporta le madri, prima e dopo il parto, qualsiasi sia la sua scelta? Quante sanno che dal 2000 esiste una legge che consente in tutti gli ospedali il parto in anonimato? Sappiamo di più certamente delle “culle per la vita” ma qualche giornalista ha mai spiegato dove e quante sono? Ha mai detto che in Calabria, Friuli, Molise, Trentino, Sardegna non ce n’è nemmeno una mentre in Lombardia ben 11?
Il punto è che in un Paese in cui non si fanno più figli, la maternità continua a essere vilipesa in ogni modo. Sin dal momento del parto. Lo scorso gennaio, il caso del bimbo soffocato mentre la mamma lo allattava. Si è cominciato a parlare, finalmente, di violenza ostetrica. Della solitudine e paura delle neomamme, dei sensi di colpa, del non sentirsi adeguate semplicemente perché chiedono di riprendersi dalla stanchezza infinita di un parto, dell’abbandono, della mancanza di aiuto e comprensione in giornate difficilissime che lasciano il segno e che si ripercuotono anche nei mesi e anni successivi.
Ora mi chiedo, se le neomamme vengono colpevolizzate quando, dopo un travaglio magari durato più di 30 ore, non si sentono in grado i primi giorni di dormire con un neonato fragilissimo, quale sarà il trattamento riservato a una donna che decide di abbandonare la propria creatura? Facile dire “parto in anonimato” ma quelle donne sono lì, hanno un viso, un corpo e saranno giudicate, condannate senza appello. Come è successo alla mamma di Aprilia. Nessuno che per un attimo si è immedesimato e si è chiesto quale la sofferenza nell’abbandonare un bimbo che per tre, sei mesi si è accudito, cambiato, lavato, di cui si è imparato a conoscere le singole pieghe, la voce, magari i primi sorrisi. Nessuno che ha levato una voce di dolore per quella donna, tutti piuttosto a chiedersi chi fosse, quali le ragioni di un gesto universalmente condannato da benpensanti immacolati. Perché stiamo diventando una società crudele, implacabile con gli errori altrui, incapace di immedesimarsi nel dolore degli altri, di accudirlo, consolarlo. Capace solo di giudicare, condannare, indignarsi. Una brutta società.
Inutile chiedersi perché non si fanno più figli quando la maternità sconta ancora tanti e tali pregiudizi, stigmi, arretratezze. Perché ancora oggi una donna che partorisce è madre, punto. Da quel momento le sue ansie, difficoltà, le sue fragilità, gli sbagli anche, non devono più avere cittadinanza. Salvo un biasimo collettivo e imperituro. Perché sei madre e non ti è concesso di soffrire ma solo gioire. Non puoi essere debole, dalla tua forza dipende la crescita di un bambino sano, robusto, sicuro. E non puoi nemmeno ambire, il tuo compito è accudire la prole finché è infante. E per questo devi lasciare il lavoro o chiedere un part time che ti taglierà fuori per sempre da qualsiasi carriera futuribile. Altrimenti, sarai una “cattiva madre”. Che espressione odiosa, quasi ci fosse un decalogo della brava madre. Ecco, finché non la smetteremo con questi stigmi medievali e non libereremo le madri dalla gabbia di doveri e perfezionismo in cui le abbiamo strette, non chiediamoci più perché non si fanno più figli.
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