Fondazione Marisa Bellisario

QUEL LAVORO CHE PRODUCE RICCHEZZA, MATERIALE E MORALE

Ho visto, vissuto e partecipato attivamente a una miriade di “Primi Maggio” e ho sempre trovato tante analogie con la Giornata Internazionale della Donna: l’occasione per un bilancio e per capire quanta strada manchi per ridurre gap che restano ma cambiano profondamente.

Anche sul fronte lavoro, i dati sono chiari e testimoniano – al netto dei passi avanti registrati dagli ultimi dati – un siderale in ritardo: per quantità e qualità del lavoro siamo la retroguardia nel G7, in Europa e nell’Ocse. E la colpa non è solo il basso tasso di occupazione femminile con quei 16 punti a separarci dalla media del G7: il tasso di occupazione maschile è il peggiore dei Paesi Ocse mentre quello dei giovani sotto i 24 anni si attesta al 20%, 27 punti sotto la media G7. La qualità? Siamo al top della classifica per part time involontario, a schiacciante maggioranza femminile, e per lavoro a tempo determinato senza contare i salari tra i più bassi d’Europa. L’Istat censisce 14,3 milioni di poveri, un quarto della popolazione ma, nel frattempo, quello che abbiamo imparato a chiamare il mismacht tra domanda e offerta di lavoro non riguarda solo le occupazioni ad alto valore di competenze e professionalità. Secondo Coldiretti e Confindustria, la quota di 82mila extracomunitari previsti dal decreto flussi 2023 coprirà meno della metà dei posti richiesti dalle imprese agricole, turistiche, della ristorazione e così via. Insomma, un cortocircuito tra domanda e offerta che invece di risolversi è andato ad ampliarsi e a scatenare nuove e sempre più drammatiche dinamiche e spirali al ribasso.

Oggi il lavoro rappresenta uno dei più potenti freni alla crescita e all’appianamento dei gap economici, sociali, territoriali e generazionali. Lo sappiamo, lo scriviamo da anni ma continuiamo a guardare alle politiche occupazionali con occhiali e strumenti vecchi e inefficaci. Che la politica intervenga mitigando gli effetti della transizione tecnologica ed ecologica è indispensabile ma non può bastare. Serve certamente una strategia di lungo periodo che metta insieme politiche fiscali e contributive, welfare pensato per giovani e donne, riforma dei profili offerti dalla scuola e dal sistema della formazione, politiche attive del lavoro. Ma serve prima, durante e dopo, una nuova idea del lavoro, un nuovo patto pubblico-privato.

Non è più, o almeno non solo, tempo di sostegni e protezione ma di trasformazione. E questo richiede, per esempio, forti investimenti nella formazione, generale e tecnica, e grande collaborazione tra il sistema educativo e i nuovi luoghi della creazione di capitale umano e tecnologico, come i laboratori che producono innovazione, oltre ai più tradizionali mondi della manifattura e dei servizi, dove la crescente automazione richiede crescente specializzazione. Ma non possiamo attendere anni e anni prima che il sistema di formazione pubblico si riorienti: le imprese devono ampliare e rafforzare il proprio ruolo propositivo e organizzativo.

E soprattutto, pubblico e privato devono convergere in un poderoso cambio di mentalità. La pandemia ha radicalmente mutato il rapporto vita-lavoro e il fenomeno delle grandi dimissioni – che alcuni classificano invece come accentuata mobilità del mercato del lavoro – ne è un portato. Il lavoro, qualsiasi e a ogni costo, è stato derubricato: si cercano soddisfazione, mobilità verticale, conciliazione del tempo “ceduto” al datore di lavoro. Non è un caso che grandi aziende come Intesa Sanpaolo abbiano avviato esperienze-pilota di riduzione della settimana a quattro giorni lavorativi e che il lavoro da remoto sia diventato una componente strutturale di ogni organizzazione. Le imprese cercano le risposte più efficaci per non perdere i più bravi. E in questa rivoluzione la tendenza, speriamo dominate, è rendere i lavoratori protagonisti della creazione di valore: non subalterni sottopagati ma soggetti essenziali, preziosi, centrali.

Un quadro complesso, insomma, e in continuo divenire. Ancora una volta, in me prevale l’atteggiamento ottimistico: le difficoltà come opportunità, il punto più basso come trampolino per un salto non verso un benessere più condiviso. Che passa per un lavoro più inclusivo, più compartecipato in azienda, più ricco di formazione, meglio remunerato, più attrattivo e socialmente generativo. In un bel saggio, un professore del Polimi lo ha definito il “bel lavoro”. Perché, al di là delle analisi e dei dati, è innegabile che il lavoro non è solo necessario. Il lavoro deve tornare una dimensione nella quale esprimiamo la nostra creatività e i nostri talenti, un’occasione di crescita, non solo professionale ma anche culturale e umana. Attraverso il lavoro vogliamo, e dobbiamo, non solo guadagnare bene ma ritrovare un senso alle azioni che svolgiamo, trasformare l’ansia di continui cambiamenti in partecipazione attiva e propositiva al progresso del Paese.

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