di Alessandra Ghisleri*
Il ruolo femminile nel contesto socio-economico e politico italiano è un argomento da sempre al centro del dibattito del nostro Paese. Dalla costituzione del primo Governo della Repubblica Italiana presieduto da De Gasperi nel ‘46 si è dovuto attendere ben 30 anni prima di vedere una donna al vertice di un Ministero (Tina Anselmi, Ministro del lavoro e della previdenza sociale nel terzo Governo Andreotti, 1976).
Nel corso degli anni la presenza di donne nell’esecutivo è sempre stata molto bassa e anche negli anni migliori, la componente femminile non ha mai superato quella maschile. Il punto massimo si è raggiunto nel 2014 con il Governo Renzi, dove i generi si equiparavano.
Ma il discorso non riguarda solo la politica e la nomina di Ministri. A oggi, in Italia il gender gap è ancora presente in tutti gli aspetti della vita economica e sociale. Basti pensare che nel solo mese di dicembre, dei 101mila posti di lavoro persi, 99mila erano occupati da donne (Istat)! Le donne, in media, entrano nel mondo del lavoro 3 anni dopo gli uomini e, a parità di ruolo, hanno una retribuzione media inferiore.
Con la nascita del Governo Draghi, le aspettative di un cambio di passo in questa direzione sono alte. Tuttavia, ancora una volta, la quota femminile è inferiore a quella maschile: solo 8 le donne al vertice di un ministero (contro i 15 maschi) e solo 3 – con ruolo tecnico – ricoprono il ruolo di Ministro con portafoglio. Peraltro, tutte e 3 premi Bellisario. Nel complesso, quindi, la quota femminile si attesta al 34,8%, perfettamente in linea con il Governo uscente targato PD-M5S e guidato da Giuseppe Conte, dove si contavano 8 donne e 15 uomini. Magra consolazione sapere che, escluso l’esecutivo Renzi con il 50% di presenza femminile, tutti gli altri Governi della storia hanno fatto peggio, con “quote rosa” addirittura inferiori (Conte 1: 27.8% – Letta: 31.8% – Monti: 15.8% – Berlusconi: 24.0% – Prodi, 22.2%).
Quest’anno, però, potrebbe rappresentare l’occasione del “riscatto” con il raggiungimento – o almeno l’avvicinamento – di una reale parità di genere grazie a diversi fattori.
Nelle linee guida della Commissione Europea per la redazione del Recovery Plan, infatti, al terzo posto degli obiettivi da raggiungere c’è proprio la parità di genere. Il nostro Paese si trova, dunque, a poter gestire una somma di denaro senza precedenti nella storia e che potrebbe davvero rappresentare la svolta dal punto di vista della crescita e dello sviluppo dell’Italia in qualsiasi settore e per affrontare seriamente – e in modo definitivo – il discorso delle differenze di genere.
Diventa di fondamentale importanza, quindi, investire parte del Recovery Fund per eliminare il gender gap, con un piano dettagliato e concreto. Proprio per la rilevanza di queste risorse, negli ultimi mesi, sia la politica – in modo compatto e trasversale da destra a sinistra – sia diverse associazioni e personaggi della società civile si stanno muovendo in questa direzione, chiedendo al Governo di affrontare in modo strutturale questi problemi e di valutare le varie proposte di spesa del Recovery Fund secondo una prospettiva di genere.
Un Governo che nella sua composizione ha concesso molto alla politica per sanare i precari equilibri, dovrebbe affrontare definitivamente e seriamente il tema del gap di genere, e non solo per una mera questione di incarichi, ruoli e stipendi, ma affinché la generazione Z – quella che si sta formando con lo studio e le esperienze in questi tempi così complicati per essere la classe dirigente del futuro – non debba più parlare di parità di genere ma affrontare il futuro a testa alta pensando a ogni singolo essere umano come persona senza alcuna distinzione se non nel merito, nelle capacità e nelle competenze.
*Euromedia Research
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