Fondazione Marisa Bellisario

NELLE PAROLE SI PERFORMI LA DEMOCRAZIA

di Roberta Leone*

Comunicare le istituzioni è scommettere ogni giorno su una possibilità: che nelle parole che scegliamo si performi la democrazia. Lo facciamo perché, nello sforzo di garantire l’accesso all’informazione o nel modo di promuovere le attività che realizziamo, crediamo nel potenziale creativo della parola. Quello di generare un tempo di ascolto e, in questo tempo, di creare uno spazio di condivisione, in cui abbiano cittadinanza e crescano il pluralismo delle voci, la differenza delle esperienze, la dignità fondamentale di tutte le persone. Questo spazio-tempo nuovo, creato dalla forza di una parola, ha la possibilità di fare la differenza e diventare cultura, quando viene popolato da una comunità. Martin Buber chiamava questo luogo relazionale, creato dalla parola che viene detta tra un io e un tu, il “fra”. Ed è proprio in questa estroflessione, nel “fra” che inizia dall’uscita da sé, che si gioca la possibilità di cooperare alla costruzione di una cultura davvero umana, capace di incontrare un altro e, nell’altro, riconoscere una persona. Una cultura che non scarta, insegna papa Francesco. Così, comunicare un’istituzione è la scelta di stare su questa soglia con la spinta continua ad andare un po’ più in là, dove la dignità delle persone che serviamo è ancora in attesa di essere riconosciuta e promossa.

L’idea che nelle parole si performi la democrazia ha innumerevoli implicazioni. Vorrei ricordarne tre. Quando già nelle premesse e nel metodo si nega il potenziale creativo di una comunicazione sana, l’unico panorama all’orizzonte è quello di un deserto culturale. Una comunicazione aggressiva non fa crescere le comunità perché non cura le relazioni fondamentali tra le persone e quindi non promuove, non libera, non genera. Ragionando a contrario, una comunicazione istituzionale sana, la si può riconoscere dai frutti di una comunità che è capace di cooperare e per questo avvia processi e genera bene comune.

Secondo: se questo è vero, allora la comunicazione delle istituzioni non può essere esclusiva o cedere a parzialità. È anche il motivo per cui la sua missione non può mai dirsi compiuta: c’è un’inquietudine che la attraversa, pari a quel che ancora manca affinché la dignità umana affermata nei principi sia opportunità concreta per tutte e tutti. Il terreno buono che chiede l’impegno delle istituzioni – tutte – è quello ancora nascosto nelle sacche di esclusione, dove la pari dignità sociale è negata: la metà femminile del mondo, le giovani generazioni sempre più vittime di povertà educativa, chi ha sbagliato una volta e non trova un’opportunità per ricominciare. Persone private del loro posto nel mondo. Comunicare le istituzioni è accendere un faro su quel posto. È responsabilità comune, e non affare privato, far sì che sia finalmente e giustamente abitato.

Si tratta di fare, citando ancora il Papa, “un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune più forte della vendetta”. Di qui discende, ultima considerazione, che per animare le istituzioni è richiesto di saper concepire la complessità e comporre il conflitto. Banco di prova della comunicazione è sempre la dignità umana e, d’altra parte, è da questa dignità che discende il senso stesso delle istituzioni.

*Responsabile Comunicazione istituzionale della Basilica e della Fabbrica di San Pietro

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