Fondazione Marisa Bellisario

MILANO FACCIA MILANO: LA CITTA’ DEI LAVORATORI

di Benedetta Cosmi*

Neanche Disneyland è una città senza lavoratori, figurarsi se può permetterselo Milano, diventare l’attrazione del turista che viene e va. “Contratti brevi”, “affitti brevi”, nessun turismo può compensare la perdita di capitale umano sul lungo termine: l’esodo abitativo dei giovani non è solo geografico ma anche emotivo. Segna una generazione di talenti in cerca di sè stessi altrove. Questi giovani, educati ai nuovi orizzonti, portano con loro non solo valigie, ma anche sogni, aspirazioni e speranze. La loro partenza lascia un vuoto tangibile, un’assenza che si fa sentire nei corridoi delle università, nelle piazze delle città, e nel cuore dell’economia. Chiedono alloggi, gli fanno eco i rettori: “chiedono Campus”.

La sfida dell’emigrazione giovanile è complessa e va oltre le statistiche. Non è solo il numero che cresce costantemente, ma anche la qualità che si perde, la vitalità che si sposta altrove. I giovani che scelgono di cercare opportunità al di là dei confini nazionali con un bagaglio di conoscenze e talenti che potrebbero contribuire in modo significativo al progresso del nostro Paese. Il Sud è stato costretto a guardare, mentre alcuni dei migliori danzatori lasciavano la pista. Ma se Milano si impoverisce, ha contratti mal pagati, fattura meno, lascia edifici sfitti, i locali storici chiudono, i quartieri mutano, la mala movida può avere il sopravvento: l’offerta – pubblica e privata – condiziona quale quartiere, che divertimento, che città, che lavoratori, essere.

Gli affitti brevi sono emersi come una delle principali opzioni per coloro che desiderano generare entrate senza impegnarsi in un tradizionale rapporto di lavoro dipendente. È diventato un modo flessibile per guadagnare denaro extra o persino un reddito principale. Tuttavia, c’è un lato oscuro in questa tendenza. Che fine ha fatto la loro occupazione, che fine ha fatto l’azienda, che fine hanno fatto i colleghi? Che fine hanno fatto i cittadini? La pandemia, la tecnologia, lo smart working, la crisi, le imprese che hanno un’altissima moria, insomma tutto questo ha portato molti a cercare fonti di reddito alternative. Trovandole. Anche perché se no avremmo la rivoluzione civile, il disordine pubblico, manifestazioni di protesta come in altri Paesi.

Veniamo a un simbolo meneghino e della Lombardia. Il Fuorisalone che da anni abbraccia la città coinvolgendola in una esplosione di creatività, design, indotto economico, contatti, reti internazionali e professionali, insomma: non è “mettersi in fila” ad aspettare il turno per la visita. Milano non può essere questo. Nell’ultimo anno si è avuta una cattiva impressione, anche le nuove normalità (security e controlli da Covid 19) sembrano aver lasciato un marchio. Ma creerà più facilmente repulsione verso gli eventi, non sarà un valore aggiunto: una sottolineatura di chi è “in” e di chi è “out” (da cui il tema di una città che respinge, che non è davvero adatta come etichetta a Milano). Con le installazioni nei cortili delle case milanesi, la città si trasforma in un grande laboratorio creativo, si apre con generosità al bello. Ma la bolla degli eventi ogni settimana (ogni mese) è esplosa, abbiamo assistito a un’inflazione del fenomeno. I cittadini hanno conosciuto un’intolleranza, al troppo. Il mondo del lavoro di queste filiere, moda, arredamento, design, comunicazione, pubblicità, startup, sono assolutamente vitali, unite alla vocazione universitaria, al manifatturiero, ai servizi, al lusso in tutti i suoi aspetti compreso nell’edilizia e nell’accoglienza. Ma pensare che spostare un flusso di gite da Firenze e Roma su Milano sia il futuro sostenibile è da matti. Milano non avrà molti fondi dal Piano Nazionale Ripresa e Resilienza, nonostante sia stata colpita duramente dalla pandemia. E i nodi stanno venendo al pettine. Milano può puntare su un altro taglio, basta che sia “style”. E il suo stile è, era e resterà: la città dei lavoratori.

*Scrittrice, opinionista Corriere della sera

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