di Francesco Vaia*
Non sono tante le donne ad aver vinto il premio Nobel (64, di cui una due volte, per un totale di 65 premi su 966, appena il 6,7%, e non certo per loro minore merito), ma tutte hanno segnato un’epoca.
La prima donna ad averlo vinto, per due volte appunto, è stata Marie Curie, divenuta ormai icona persino nella cultura pop.
Le sue scoperte sulla radioattività, che le valsero il Nobel per la Fisica insieme al marito, e quelle sugli elementi chimici del Radio e del Polonio, che le valsero quello per la Chimica, hanno avuto conseguenze positive tangibili e durature per la scienza e la medicina, ma le costarono anche la vita: i suoi appunti sono ancora conservati in teche rivestite di piombo e consultabili dagli studiosi unicamente indossando speciali indumenti protettivi, a causa della loro radioattività, visti i notevoli livelli di radiazioni a cui furono esposti insieme alla loro autrice.
In Italia (e non solo) siamo orgogliosamente legati ad un’altra vincitrice del Nobel e grande eccellenza della Medicina, Rita Levi-Montalcini: l’isolamento del nerve growth factor (il fattore di crescita nervoso) ci ha fornito le chiavi per comprendere meccanismi patogeni prima sconosciuti e ha spalancato le porte ad applicazioni farmacologiche estremamente promettenti.
Anche l’ultimo Nobel per la Medicina è stato assegnato ad una donna, Katalin Karikó, che insieme al collega Drew Weissman è stata premiata per le scoperte che hanno reso possibile lo sviluppo dei vaccini a mRNA, contribuendo a superare l’emergenza pandemica e aprendo anche scenari entusiasmanti sul futuro della lotta al cancro.
Tre donne eccezionali, che paradossalmente rappresentano una minoranza in un panorama scientifico e medico ancora troppo declinato al maschile, soprattutto nei ruoli apicali, sebbene la tendenza degli ultimi anni possa lasciarci ben sperare. In Italia ad esempio, nelle facoltà di Medicina e Chirurgia, il numero delle studentesse è in continua crescita e da tempo ormai ha addirittura superato quello dei colleghi maschi.
L’impegno delle donne per la Salute non è in effetti una novità di questo tempo: senza voler scomodare la Peseshet dell’antico Egitto, “guida delle guaritrici”, o le mulieres salernitanae della prestigiosa Scuola medievale, le donne hanno sempre dimostrato una naturale predisposizione per la cura. Per tornare a tempi più recenti, come non ricordare, ad esempio, le ostetriche che hanno rappresentato a lungo un riferimento sicuro per le famiglie, nei tanti comuni di cui è costellato il nostro Paese?
Non è un caso, forse, che tra i personaggi principali del mitico “Pane, amore e fantasia” di Comencini figuri proprio la levatrice, insieme al maresciallo dei Carabinieri: una rappresentazione plastica delle istituzioni che riscuotevano la fiducia ed anche l’ammirazione della popolazione. Un presidio, una vera istituzione dell’Italia di quegli anni e del suo immaginario affatto stereotipato.
È chiaro che oggi stiamo costruendo modelli di coinvolgimento più avanzati ed in linea con l’evoluzione della nostra società e che valorizzino sempre più il grande potenziale professionale e umano delle nostre colleghe.
Ma la salute non è soltanto medicina: siamo tutti chiamati oggi a renderci partecipi del grande cambiamento di paradigma che ci porterà dalla “società del medicamento” alla società della prevenzione e della tutela della salute, per sua stessa natura trasversale e sindemica.
Anche senza essere operatrici sanitarie, le donne possono allora, tutte, essere protagoniste di questo cambiamento, visto il ruolo strategico e centrale che svolgono nella società in relazione all’adozione di corretti stili di vita.
Un impegno “laico”, quindi, che può dare un contributo decisivo anche alla sostenibilità del nostro sistema salute (basti ricordare che il 60% del carico di malattia in Italia e in Europa è riconducibile a fattori di rischio modificabili attraverso stili di vita salutari e che il 40% delle malattie oncologiche è prevenibile attraverso stili di vita salutari).
Le donne insomma possono e devono guidare l’alleanza tra sanità, scuola e famiglia, che è motore indispensabile per agire in un’ottica di sistema, ormai svincolati dai compartimenti stagni del passato.
La grande sensibilità dimostrata dalle donne verso gli screening oncologici è inoltre un segnale esemplare da diffondere: frutto, certamente, di mirate campagne di sensibilizzazione, ma anche di una maggiore maturità e consapevolezza, che le donne possono far incarnare nel vissuto quotidiano di tutti.
Un “presidio di prossimità e prevenzione” insomma, più potente di qualsiasi struttura di mattoni.
Abbiamo tutti grande bisogno dello sguardo innovativo delle donne e ancor di più oggi, nell’era delle transizioni, epidemiologica e demografica, digitale ed ecologica.
*Direttore generale della Prevenzione, Ministero della Salute