«Perché quasi niente quanto la guerra, e niente quanto una guerra ingiusta, frantuma la dignità dell’uomo». Lo scriveva una donna, Oriana Fallaci. E ce lo spiega in un bellissimo ed emozionante pezzo chi la guerra l’ha vissuta sulla propria pelle, la nostra amica afghana Sakinah Hosseini. Perché la guerra vissuta è assai diversa da quella raccontata o commentata dai nostri comodi divani. Per questo ho scelto di lasciare le mie parole a Elena, che un conflitto lo sta vivendo in queste ore e che, nonostante tutto, non perde la speranza. «Piano, piano ‒ mi confida con dolcezza ‒ speriamo che si risolva tutto».
«È una mattina tranquilla – mi dice quando la chiamo al telefono – perché non sono suonate le sirene, come tre giorni fa». Elena è una donna ucraina, una delle migliaia che da anni vivono e lavorano in Italia. Prima che tutto cambiasse. «Il 24 febbraio ‒ racconta ‒ era un giovedì e ho saputo che mio fratello era stato chiamato per combattere. Lui è un militare e già durante la guerra del 2014 aveva trascorso sei mesi nel Donbass. Ero preoccupata per mia mamma e per le mie due nipoti e il venerdì ho deciso di lasciare tutto. Mia cognata lavora nel laboratorio dell’ospedale e le hanno fatto un corso rapido perché possa servire da infermiera in caso di necessità. Lei non vuole lasciare né il Paese nè il marito e anche mia mamma, che non è mai uscita dall’Ucraina, dice che vuole morire qui. Dovevo raggiungerle. C’erano degli amici che andavano a riprendere il figlio e sono partita con loro. Sabato ero già a casa».
La casa di Elena è a Ternopil’, città dell’Ucraina occidentale, a 120 km da Leopoli e vicino al confine polacco. Il sesto giorno del conflitto, quando Elena era appena arrivata, i primi bombardamenti che «hanno rovinato» il suo paese ma l’aeroporto – racconta – era ancora funzionante. L’11 marzo, tre giorni prima della nostra conversazione, il giorno peggiore nei suoi ricordi, i missili russi hanno colpito anche quello snodo fondamentale, base di rifornimento per i soldati al fronte e le popolazioni stremate a oriente.
«Quanti siete in casa?» le chiedo. Fa i conti e poi ci dice che sono in 15, in un appartamento con appena tre stanze da letto. Si stringono e dormono su materassini gonfiabili. Oltre lei, la cognata, la mamma e le due nipoti, hanno trovato posto anche per chi una casa non l’ha più. «Mio fratello ‒ racconta ‒ ci ha scritto che dovevamo ospitare due famiglie alle quali avevano bombardato le case. Noi non possiamo telefonargli né sapere dove è ma evidentemente era in una zona in cui le bombe hanno distrutto interi palazzi. Tra queste famiglie c’è una donna di 84 anni che ha avuto un ictus e sta malissimo. Speriamo che il Signore le allunghi la vita. Purtroppo non possiamo portarla in ospedale perché per ora è adibito solo alla cura dei feriti». E poi c’è un bimbo di un anno e mezzo. «Lui poverino non dorme. Non parla ancora – mi dice con la voce rotta dalla commozione – ma quando sente la sirena ha paura e dice “spalakh” che in ucraino significa “scoppio”. Dice solo questo e poi guarda negli occhi gli adulti. La sera, quando dobbiamo spegnere tutte le luci per paura dei missili, lui piange e accendiamo una candelina per tranquillizzarlo».
Le giornate di guerra scorrono interminabili, mi confessa, e per lo più devono restare in casa perché fuori è pericoloso. «Le bambine vogliono uscire ma per le strade ci sono continui blocchi e i nostri militari che pattugliano via per via controllando che non ci siano persone sospette e segnali». Sono segni luminescenti – sugli alberi o sull’asfalto – visibili dagli aerei di notte: i bersagli per i bombardamenti notturni. Finora, fortunatamente, i militari sono riusciti a intercettarli e rimuoverli. A rompere la monotonia e l’attesa di notizie dall’esterno ci sono le sirene. «Appena le sentiamo suonare – dice – dobbiamo scendere in fretta nella cantina, quella dove mia mamma conservava le provviste per l’inverno. Stiamo lì finché non sentiamo l’altra sirena, che dura un po’ meno e ha un suono diverso. È il segnale che gli aerei sono passati e il pericolo è finito».
Alla fine, le racconto della nostra missione umanitaria per i bimbi del suo Paese e le chiedo di cosa hanno più pressante bisogno. «Non saprei di preciso, mancano tante cose ma soprattutto le medicine. Nei giorni scorsi il bimbo ha avuto la febbre e non avevamo nulla da dargli. E poi alimenti per bambini e coperte. Qui stamattina la temperatura era di –8 e dove stanno bombardando arriva a –20». Chiederà al fratello con un messaggio – mi dice – cosa serve nei luoghi in cui si combatte e come consegnare i beni che invieremo in modo che arrivino in fretta alla popolazione.
«Grazie, grazie per quello che state facendo per noi. Grazie da parte mia e di tutto il mio popolo. Che Dio vi benedica» conclude.
Io ringrazio lei e tutto il suo popolo. Perché non sono di quelli che in questi giorni nei talk show televisivi tergiversano sulla complessità della situazione. Di fronte a una guerra, io sto dalla parte degli aggrediti. Dalla parte delle donne e dei bambini che la subiscono, spesso perdendo la vita o subendo indicibili violenze. Senza se e senza ma.
Grazie a te Elena, ci vediamo presto.
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