di Monica Mosca*
Non mi piacciono le mimose. Mi infastidisce anche il loro profumo da quando ho iniziato, ragazza, a riceverle in dono l’8 marzo: “Tanti auguri, buona festa della donna!”. Se regalate da un uomo non mi piacciono proprio per questo, perché mi appaiono simbolo di un gesto automatico anche svilente, le donne come animali in estinzione, ricordiamoci di loro almeno una giornata all’anno.
Le donne si omaggiano in un solo modo: rispettandole ogni istante e dando voce a chi fra loro ancora non ce l’ha. Facendosi portabandiera dei lori diritti quando gli uomini, e i capi di stato, e interi Paesi li calpestano con indecenza. Oggi come ieri, purtroppo, e le cento battaglie vinte in nome di un’uguaglianza ancora così lontana sono coriandoli a confronto delle migliaia che restano da vincere: “Finché ci sarà una sola donna minacciata in quanto donna, noi non avremo pace”, ha scritto Lidia Ravera. Quanto sono d’accordo.
Era proprio l’8 marzo quando ho visto le cinque ragazze iraniane ballare alla periferia di Teheran per la propria libertà – video che in poche ore ha fatto il giro del mondo – e ho avuto paura. Non portavano il velo, avevano i capelli sciolti e le magliettine corte, come tutte le loro coetanee: ma in Iran significa sfidare il regime e rischiare la vita. Le ho guardate ballare e nei loro sorrisi ho visto così tanto coraggio e determinazione che mi sono commossa.
Da quando a settembre la polizia religiosa ha ucciso Mahsa Amini perché il velo che indossava non le copriva a sufficienza il capo, sono sei mesi che le donne iraniane si immolano davanti al mondo per conquistare quella libertà la cui mancanza le uccide comunque. Le cinque ragazze ballavano per chiedere ancora una volta il nostro aiuto, per non farsi dimenticare, perché i riflettori restino accesi contro il regime dell’ Ayatollah Khamenei.
Ho sperato pazzamente che ce la facessero a scappare, che si volatilizzassero, ma la polizia le ha cercate in ogni casa, una caccia furibonda, ha analizzato ogni telecamera di sorveglianza, scandagliato le immagini di quel video tanto “vergognoso”. E le ha trovate.
È del 15 marzo il secondo video diffuso via Twitter che ne mostra la resa: dopo 48 ore di fermo, ecco di nuovo le cinque ragazze ma con il capo coperto, infagottate in abiti informi. Sono state riportate sul luogo dell’affronto, davanti a quegli stessi palazzoni di periferia dove ballavano e obbligate a recitare un mea culpa scritto dai loro aguzzini.
No, per ora non sono state uccise, perchè i nostri occhi sono ancora puntati su di loro e il governo iraniano si è voluto mostrare “magnanimo”. Quello stesso governo sospettato in quegli stessi giorni di avere fatto avvelenare a scuola duecento bambine di 10 anni, forse proprio per distrarre la nostra attenzione dalle proteste di piazza che squassano il Paese. O per far chiudere gli istituti femminili “così poco sicuri” (come è già accaduto in Afghanistan), sostengono gli attivisti per i diritti umani.
Sono anche i nostri occhi di donne occidentali il faro che mantiene la luce accesa sul buio profondo dell’Iran. Non chiudiamoli neanche per un istante e facciamo rumore, balliamo ogni giorno per quelle ragazze, ognuna di noi come può.
Io faccio la giornalista, e racconto a gran voce. È il mio ballo per ogni diritto calpestato.
*Giornalista