Fondazione Marisa Bellisario

VEDERE NON È GUARDARE, RICONOSCERE NON È CONCEDERE. SCHIERARSI SENZA DICHIARAZIONI DI GUERRA

di Federica Celeste*

Ti dicono che puoi tornare al lavoro, ma che devi lasciare fuori la maternità. L’esclusione non è diretta a te: solo a ‘‘una parte’’ di te. Ti accorgi così di quanto fosse piccola la porta che prima varcavi ogni giorno di corsa. E non ti viene il dubbio che sia perché sei diventata troppo grande tu. Zezza, R. (2025). Cura. Voci del lavoro nuovo. FrancoAngeli.

Thymós: il fuoco che ci nega chi ha paura di scottarsi

Esistiamo nel momento in cui qualcuno ci vede davvero. Eppure, in troppe stanze—aziendali, politiche, sociali—lo sguardo è selettivo, escludente, cieco alla diversità che genera valore. E alla voce che chiede riconoscimento.

La crisi delle democrazie liberali non è solo politica, è filosofica e antropologica: è una crisi dell’identificazione. Chi merita di essere visto? Chi ha diritto alla parola? Chi decide chi conta? Thymós, dicevano i Greci. Non solo ragione (logos) o desiderio (eros), ma l’anima che aspira al ribilanciamento sociale, alla dignità di contare. L’energia interiore che mira alla risonanza, non come atto di grazia, ma come necessità. Non un capriccio, non un bisogno di attenzione, ma la tensione generativa del pluralismo che funziona. E cosa succede quando questo impulso propulsivo viene ignorato? Rabbia, disillusione, fuga. Il civismo si riduce a una mera comparsa, la cittadinanza a una formalità.

Proclami variopinti, eppure la cultura e la consapevolezza spesso latitano. Il mondo del lavoro non ne è immune. Quanti giovani brillanti, zittiti, vedono la propria spinta mortificata dall’ageismo strisciante? Quante voci di minoranze annaspano, infrangendosi contro la retorica di un’inclusione di facciata? Senza partecipazione, il talento si inaridisce. Come riconoscere chi, anziché limitarsi a narrazioni acerbe, si attiva per un futuro autenticamente equo? Quelle persone che non abbassano la barra, ma le barriere affinché tutti possano dimostrare il proprio credo? Non basta enunciare valori se non si costruiscono infrastrutture che li sostengano. La richiesta non è di tutela, ma di spazio e condizioni per lo svelamento ampio.

Non si vede ma c’è: sguardi che cambiano vite

Si dice che il lavoro determini le nostre vite, ma le vite determinano il lavoro, non viceversa. È il nostro sguardo sul mondo a stabilire il tipo di impatto che avremo, non la funzione che ricopriamo. Siamo noi a scegliere se costruire ponti o difendere recinti, se riconoscere il valore o lasciarlo morire nell’ombra. Perché la parola giusta, detta al momento opportuno, sveglia la coscienza.

Prima di chiederci quali semi stiamo piantando, stiamo arando il terreno giusto? Perché la cura non è un atto passivo, è riconoscere chi abbiamo di fronte. È ascolto, presenza, azione.  Abbiamo bisogno di Diversità, Equità e Inclusione (DE&I) autentiche che non scadano in panegirici e proselitismi, rendendo visibile ciò che oggi resta invisibile. Perché la legittimazione esistenziale dell’Altro da noi non è un atto di concessione. Se non ci attraversa è decoro scenografico. E questo dipende dalle scelte, concrete, che facciamo. Dando voce, non solo visibilità.

Oltre le etichette: cosa aspettavate a guardarci?

IO TI VEDO. Quante volte vorremmo sentirlo davvero? Non come una frase di cortesia gettata lì, ma come un atto di prossimità piena, radicale. In un mondo di sovraesposizione, il potere genuino è accorgersi, accogliere e ascoltare. E la cura, come la intende Riccarda Zezza nel suo libro edito da FrancoAngeli (Cura, 2025), è proprio una grammatica esistenziale dell’appartenenza.

Non buonismo, non carità aziendale. Eppure, chi ha già visto certe battaglie, chi ha i capelli bianchi, chi ha vissuto più storia, troppo spesso non crea alleanze. Ostracismo e ostruzionismo sostituiscono la trasmissione di saggezza. Si chiudono porte invece di aprire finestre. Come se la luminosità altrui fosse una minaccia, anziché una possibilità. Ma perché la presenza disarma? Perché non siamo abituati a considerare la bellezza come una forza politica. Il richiamo a ciò che costruisce e non addomestica è la più grande minaccia al surrogato dell’Io: lo scranno interiore su cui ci sediamo credendo di dover proteggere il nostro alveo di privilegio. Lottando dall’alto per bottini e fortezze, trascurando la palude infestata da coltivare.

L’accudimento non è un atto privato, ma uno sguardo amorevole pulito. Una responsabilità collettiva. La crociata morale ed ideologica di chi approccia la realizzazione comunitaria, allontanando la competizione egoriferita.  La fiamma interiore di quando realizzi che non fai succedere le cose, ma getti i semi in giro e gioisci, anche senza sapere cosa ne sarà. Perché il cambiamento sincero non è immediato, non è spettacolare, e le soglie del possibile impiegano un po’ a germogliare.

La vera domanda non è come rendere il quotidiano più sensibile, ma se abbiamo il coraggio di smettere di fuggirlo. Abitandolo con la vulnerabilità che richiede. Un invito a immergersi in pensieri di fioritura che accarezzano e pungono, come mani che sfiorano e svegliano. Già dalla dedica, Riccarda ci consegna un incipit che è insieme seta e lama.

Sono grata per le cose che so e che sono, per l’educazione ricevuta, per le cose che mi piacciono di me e per quelle che accetto anche senza amarle, obbligandomi ad averne cura proprio perché le trovo brutte. Sono grata a chi mi ha voluta e anche a chi non ha mai saputo che sarei esistita e inconsapevolmente mi ha dato la vita. Sono la nipote di mia nonna e un ampio cerchio di cura prima di lei e fino a me e poi ai miei figli mi ha permesso che io esistessi così come sono. E continuerà dopo di me. Zezza, R. (2025). Cura. Voci del lavoro nuovo. FrancoAngeli.

 * Ricercatrice al Politecnico di Milano e a Parigi sulla sostenibilità sociale, Pedagogista e consulente nelle Risorse Umane

 

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2 commenti su “VEDERE NON È GUARDARE, RICONOSCERE NON È CONCEDERE. SCHIERARSI SENZA DICHIARAZIONI DI GUERRA”

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