Fondazione Marisa Bellisario

La difficile sfida di San Su Kyi

In Birmania dal 2012, una consistente frangia della maggioranza buddista ha dismesso l’atteggiamento pacifico per aggredire la minoranza islamica. Gli islamici rohingya,originari del Bangladesh,non riconosciuti e privi della cittadinanza sono concentrati soprattutto nello stato di Rakhine, ma da marzo 2013  gli scontri tra loro e i buddisti si sono estesi  in tutto il paese e ad altre comunità musulmane provocando massacri. Eppure per secoli i musulmani, arrivati in Birmania nel XIII secolo hanno convissuto per secoli con i buddisti in relativa armonia. Quello che fa infuriare i musulmani è la commistione tra soldati e monaci, perché l’esercito tailandese addestra apertamente milizie civili e spesso accompagna i monaci buddisti nella questua mattutina.  Secondo The New York Times  però dietro le violenze  contro i musulmani c’è una lotta di potere nell’élite, che si  è scatenata tra forze moderate e oltranziste di governo quando è entrato in carica il generale, il moderato Thein Sein. I generali, che hanno governato il paese per 50 anni controllano gran parte della ricchezza nazionale e alcuni sono legati agli interessi  cinesi che potrebbero essere pregiudicati dal rafforzamento dei rapporti economici della Birmania con l’Occidente. L’aggressione contro i musulmani serve perciò a distrarre l’attenzione dei birmani dalla Cin e non caso  l’incaricato speciale  dell’ONU in Birmania ha ufficialmente denunciato l’immobilismo delle autorità di fronte alle  atrocità commesse da bande di buddisti ultranazionalisti. Le Nazioni Unite si sono appellate al governo. Aung San Su Kyi ha rilanciato con un appello alla legalità, che però non  bastato e non basta. E’ necessario che l’eroina birmana, sollecitano i media, condanni apertamente  le persecuzioni delle minoranze e l’indifferenza delle autorità. Altrimenti lo spargimento del sangue impedirà l’ingresso di Myammar nella comunità internazionale. 

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