di Nicoletta Ferrari*
Dal panel “Società e Futuro del Lavoro” dell’ultimo summit tenuto a Davos dal 25 al 29 gennaio 2021, è venuta chiara la necessità che i piani nazionali di ricostruzione post pandemia siano «gender parity oriented».
Sono infatti le statistiche a dimostrare come l’emergenza abbia avuto un maggior impatto occupazionale sul mondo femminile rispetto a quello maschile. Kevin Sneader, della McKinsey & Company, riporta come a settembre 2020 in USA l’80% delle persone che hanno lasciato il lavoro siano donne, mentre in India le donne siano esposte a un rischio negativo d’incidenza sul benessere economico 3,5 volte maggiore rispetto a quello degli uomini, anche perché i settori occupazionali delle donne sono 20% più a rischio rispetto a quelli degli uomini. Sul lato domestico si è manifestato a livello mondiale un aumento esponenziale dei casi di violenza e del lavoro di cura non retribuito.
Laura Liswood, Segretaria generale del Consiglio delle donne Leader mondiali, riassume così le ragioni per cui l’inclusione deve essere considerata un valore: «Nelle crisi servono le idee più creative, esperienze e prospettive diverse».
Sul lato economico va inoltre sottolineata la correlazione positiva tra diversità e performance.
Per un cambio di rotta serve un «multi stakeholder’s approach», convengono con Liswood le ministre francese e svedese Elisabeth Moreno e Ann Linde, con conseguenti interventi congiunti a livello politico-legislativo, privato, economico e della società civile.
Sono necessarie misure strutturali per alleggerire il lavoro di cura, per consentire la piena inclusione digitale e per formare le lavoratrici del futuro, oltre a prestiti subordinati all’adozione di politiche aziendali di diversity.
Un monito per l’Italia che, nell’ultima versione del Recovery Plan divulgata, inquadra la gender parity nella componente “Inclusione e Coesione”, la affronta con politiche del lavoro (defiscalizzazione e sostegno all’imprenditoria femminile) prevedendo stanziamenti irrisori.
I nostri sembrano non aver compreso che un 99% sul totale di perdita di occupazione mensile a dicembre 2020 (dati ISTAT), un tasso di occupazione che nel Mezzogiorno si arresta al 30% circa, una partecipazione al mondo imprenditoriale pubblico e privato che non raggiunge un 30% complessivo, un divario di genere a cui il World Economic Forum assegna in Europa un 17mo posto su 20 (GGR 2020) comprovano l’esclusione di un contributo femminile al benessere e alla crescita economica del Paese.
Davos chiama, e la sua voce deve essere ascoltata anche se risuona ancora troppo debole. Le fonti pubblicamente accessibili mostrano purtroppo che persino il World Economic Forum affronta il tema unicamente in un sottogruppo di lavoro, non dandogli il rilievo meritato, e con panel nella quasi totalità femminili ponendo di fatto un limite agli interlocutori.
*Avvocato
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