Vogliamo davvero la parità sul lavoro? E allora bisogna prenderle da piccole, le ragazzine. E fare il possibile per non imbottir loro la testa di stereotipi stantii. Dei danni fatti dalla retorica del principe azzurro si parla tanto. Un po’ meno della sindrome di Mary Poppins. Le donne? Ottime per insegnare, fare le segretarie, le impiegate, le infermiere. Ma anche le commesse, le parrucchiere/estetiste, le bancarie, le contabili, le assistenti sociali, le psicologhe, persino le addette al marketing. Ma le ingegnere? Meglio di no. Le scienziate? Se non fosse per Rita Levi Montalcini adesso nemmeno riusciremmo a immaginarcela, una ricercatrice.
Qualcuno dirà: ma questo è un mondo che non c’è più, oggi le donne fanno tutto, spesso meglio degli uomini. Sì, in teoria. La realtà è ancora un’altra cosa. Basta guardare i dati del ministero dell’Istruzione sugli iscritti alle scuole superiori. Aggiornati al novembre 2012. Bene: al liceo classico le donne sono il 70 per cento, i maschi il 30. Per carità, chi ha studiato al classico poi può iscriversi anche a ingegneria con ottimi risultati. Ma la strada maestra porterebbe in altre direzioni. Nella categoria “altri licei” di cui fanno parte gli indirizzi “linguistico” e “scienze umane” le donne sono l’80 per cento. In compenso negli istituti tecnici non arrivano al 35. Non sarà che stiamo tarpando le ali alle nostre figlie?
L’unica consolazione e che il limite non è solo nostro. L’Unione Europea ha promosso una campagna per incentivare le donne a iscriversi alle facoltà scientifiche. Una delle cinque tappe previste negli stati membri, dal titolo “Science: it’s a girl thing”, “Scienza: è roba da ragazze”, si è svolta venerdì 23 novembre al museo della scienza e della tecnica di Milano: nove Ricercatrici con la R maiuscola mobilitate per spiegare alle ragazze delle superiori che la scienza è femmina, e non solo sul vocabolario.
Allora, care signore, perché siete ancora mosche bianche? Basta rivolgere questa domanda alle donne “da laboratorio” riunite a Milano perché si apra un mondo. Il primo problema sono le bambole. Troppe. Troppi piattini, cucine, aspirapolveri e lavatrici mignon. “Giocare di più con le costruzioni o il meccano aiuterebbe le bambine a introiettare modelli deversi”, è la risposta corale. “Le donne hanno paura a buttarsi nel campo delle scienze perché non hanno modelli di riferimento. Non hanno mai visto un’altra donna fare quel questo genere di lavoro. Mia figlia a 17 anni si sta avvicinando al mondo della scienza. Credo che il fatto di avere una mamma da sempre in questo settore abbia avuto un peso”, racconta Ilaria Rosso, 43 anni, 50 pubblicazioni scientifiche all’attivo. “Le donne danno per scontato di non essere all’altezza”, allarga le braccia Ilaria Baroni, ingegnere informatico che si occupa di robotica chirurgica al San Raffaele di Milano, 29 anni e convinzioni simili a quelle delle colleghe con più esperienza.
Assodato che in ambito scientifico entrano in poche per colpa di condizionamenti che hanno radici profonde, il manipolo che indossa il camice bianco nonostante tutto è talmente motivato da ottenere risultati straordinari. Almeno nei primi dieci anni di lavoro. Poi subentra la questione “famiglia”. “Ho visto tante colleghe con figli piccoli prendere aerei alle cinque del mattino pur di dormire la notte a casa e mettere a letto i bambini. Ma così ci si sfianca e non si regge a lungo”, dice Valeria Mordenti, responsabile marketing nel settore dell’It. “Le ricercatrici che come me lavorano nella chimica quando restano incinta devono uscire dal laboratorio. E con il nostro lavoro restare fuori un anno è già tantissimo”, valuta Alessandra Tacca, 35 anni, chimico del centro per le energie rinnovabili dell’Eni. I contratti di ricerca, poi, sono brevi e si è costrette a traslocare in continuazione da un Paese all’altro. “Ma sia chiaro: tutto si può fare. Io lavorando ho cresciuto tre figli”, blocca sul nascere ogni vittimismo Silvana Tezza, 58 anni, ricercatrice in Versalis, la società petrolchimica dell’Eni.
Per quanto riguarda la carriera e le retribuzioni, valgono le dinamiche delle altre professioni. Come dice Loredana Spezzi, 34 anni, astrofisica, ricercatrice presso lo European southern observatory a Garching bei Munchen, in Germania, “le poche donne in questi settori molto maschili sono straordinarie. Gli uomini sono bravi. Punto”. Un distinguo però va fatto. E non si tratta di roba di poco conto. Se hai una laurea umanistica e finisci in una funzione amministrativa o al personale sfondare il tetto di cristallo è più difficile. Chi si trova in settori a contatto con il core business dell’impresa è sempre avvantaggiato. E in questo le facoltà scientifiche fanno la differenza.
Fonte: Corriere della Sera, 26 Novembre 2012
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