Fondazione Marisa Bellisario

QUOTE DI GENERE: UN MODELLO CHE FUNZIONA

Secondo gli ultimi dati, in virtù della legge Golfo sulle quote di genere, le donne nei boards, sono passate da un modesto 5,5% del 2010 al 23% attuale. Gli effetti positivi generati, però, non sono stati solo in termini di riduzione del gender gap. Dallo studio Women mean business and economic growth, in corso presso il Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in cui sono stati analizzati circa 3170 curriculum vitae di consiglieri di società interessate dalla legge, è emersa un’accresciuta trasparenza nel percorso di analisi e scelta dei candidati, con un conseguente innalzamento dell’asticella del merito e un abbassamento dell’età.

In antitesi, quindi, a quello che era uno dei principali argomenti contrari all’introduzione delle quote, uno dei primi esiti positivi è una maggiore attenzione proprio a quel merito, che si temeva invece venisse penalizzato. Inoltre, l’introduzione delle quote non si è associata ad altre due possibili criticità che si paventavano, ossia: poche donne in molti consigli, e l’aumento dei consiglieri scelti all’interno di uno stesso contesto famigliare. Come visto per la questione merito è accaduto l’esatto contrario, in quanto le posizioni multiple sono diminuite, in particolare tra le donne (dal 25,4% al 18,6%), segnalando quindi un allargamento della platea di candidati dai quali sono selezionati i consiglieri, mentre le donne legate da rapporti di parentela con altri componenti del consiglio sono passate addirittura dal 16,2 al 7,9% (si veda J. Ignacio Conde-Ruiz, P. Profeta, Quote rosa italiane, un modello che funziona, in ilfattoquotidiano.it, 7 marzo 2015).

Ma oltre ai numeri, c’è di più. Come comprovato da diversi studi sul punto, esistono correlazioni positive tra l’aumento della presenza femminile nei boards e il miglioramento delle performances aziendali (si vedano, ad esempio, gli studi Credit Suisse, The CS gender 3000: women in senior management, 2014; Credit Suisse, Gender diversity and corporate performance, 2012). Tra i vantaggi “microeconomici”: il miglioramento della qualità del processo decisionale, nella gestione delle relazioni all’interno dell’azienda e con gli stakeholders, nella prevenzione e nella gestione dei conflitti, nell’etica e nella corporate governance, nella valorizzazione dei talenti, oltre ad un aumento della creatività e dell’innovazione e una minore propensione al rischio; mentre tra quelli “macroeconomici”: la creazione di circoli virtuosi utili all’economia, in termini di crescita sostenibile. Inoltre le aziende con una composizione più bilanciata tra i generi hanno dimostrato una maggiore resistenza alla crisi, maggiori ricavi, valutazioni e payout ratio più elevati. Infatti, secondo l’ultimo studio del Credit Suisse, fin dall’inizio del 2012 si è registrato un +5% di outperformance su base settoriale da parte di quelle società, che avevano almeno una donna nei CdA e un’analisi della tendenza sul lungo periodo mostra un incremento nei ricavi annui addizionali del 3,7% dal 2005.

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