di Federica Celeste*
Immaginate: pillola rossa o pillola blu? Siamo nel 1999. In un mondo che ancora scriveva SMS con il T9, un hacker di nome Neo si trova davanti alla scelta più radicale della sua vita. Morpheus gli porge due capsule: la blu, per tornare alla normalità, all’illusione, al comfort programmato; la rossa, per scoprire la verità, anche se scomoda, anche se dolorosa.
Ecco: Matrix non era solo un film di fantascienza. Era una profezia sul lavoro. Sì, avete capito bene: sul lavoro. Perché oggi, ogni giorno, milioni di persone ingoiano la pillola blu quando accettano un lavoro che non li rappresenta, quando sorridono in call mentre dentro gridano, quando si convincono che “non è poi così male”, “è solo una fase”, “devo stringere i denti”.
Silenzio organizzativo o grido generazionale
Immaginate di avere vent’anni (ma anche trenta). Ti alzi ogni giorno in un mondo che ti dice: “Hai tutto!” Ma il tuo contratto è a tempo, il tuo affitto è ingestibile, il tuo terapeuta ha la lista d’attesa lunga quanto l’enciclica. E poi, la ciliegina: vieni etichettato come “fragile”.
Generazione Fragile — o meglio, il fantasma fragile che gli adulti proiettano sui giovani, perché hanno bisogno di crederlo.
Secondo un report McKinsey (2024), il 63% dei giovani under 30 lavora in settori a basso margine, ad alto rischio di automazione. Il 47% vive con un’ansia da prestazione cronica. Il 39% vorrebbe fare un altro lavoro ma non può permetterselo economicamente.
E mentre si barcamena tra tre lavori e una laurea inutilizzata, c’è sempre un boomer pronto a dire: “Ai miei tempi c’era la gavetta”. La gavetta? Certo. Ma ai loro tempi una casa costava tre anni di stipendio. Oggi ce ne vogliono diciotto (OECD Housing Market Statistics 2023).
I giovani non sono fragili, ma sovraccarichi di realtà. Sono la generazione che ha visto: tensioni geopolitiche da quando è nata; due crisi finanziarie globali; una pandemia; la guerra alle porte dell’Europa; un pianeta che brucia; una promessa di meritocrazia evaporata.
E no, non stanno zitti. Stanno inventando linguaggi nuovi: il silenzio organizzativo della disillusione, la grande fuga dalle aziende, la dignità nel dire “no, così non gioco.”
La grande bugia del ‘‘farsi le ossa’’
Oggi, in azienda, non ci sono solo generazioni diverse. Ci sono memorie che convivono con visioni. Muscoli che convivono con sinapsi. Baby Boomers, Gen X, Millennials e Gen Z. Tutti nello stesso open space, spesso senza nemmeno ascoltarsi davvero. Insomma, sopravvivenza e pochi dialoghi oltre le rughe e le sneakers di microplastiche oceaniche.
Il confronto intergenerazionale? Serve. Ma senza paternalismi. Basta con gli inviti a “resistere di più”. Riflettiamo:
- Che cosa state vedendo voi che noi non vogliamo vedere?
- In che modo il nostro modo di lavorare vi sta soffocando?
- Come possiamo costruire, insieme, un sistema che non vi chieda di scegliere tra salute mentale e carriera?
È tempo che smettiamo di chiederci se i giovani “reggeranno il mondo del lavoro”. E iniziamo a chiederci se il mondo del lavoro reggerà loro. Spoiler: solo se cambia. Solo se capisce che sostenibilità non è solo salvare il pianeta. È non perdere l’anima.
Se non costruiamo un ponte tra generazioni, alimentiamo un campo minato. E quando esplode, non ci chiederanno l’età. Ci chiederanno perché non abbiamo fatto nulla prima.
Benvenuti fuori da Matrix
Tanti di noi stanno lavorando in Matrix. In una sceneggiatura scritta da qualcun altro. Con ritmi che ci svuotano, valori che non ci appartengono e metriche di successo che ci ammalano.
La pillola rossa, oggi, non è una fuga.
È il coraggio di guardare il lavoro come un atto creativo, non come una punizione necessaria.
È smettere di lavorare per dimostrare, e iniziare a lavorare per esprimere.
È capire che il contrario di comfort non è sacrificio. È autenticità.
Abbiamo chiamato ‘‘carriera’’ ciò che spesso è solo apnea.
Quante generazioni dovremo bruciare prima di capire che il benessere non è un benefit, ma una base minima di civiltà?
Lasciare un lavoro se impatta negativamente sul benessere mentale non è debolezza. È intelligenza selettiva. È rifiutare un sistema che premia solo chi si autodistrugge bene.
Allora sì, oggi vi parlo come Federica, ex-stacanovista pentita. E, soprattutto, come una alleata.
La pillola è sul tavolo. Non vi dirò quale scegliere. Ma se siete qui, forse, lo sapete già. Voi avete la voce.
Per feste che siano tempeste. Come ricorderebbe Michela:
«La mia anima non ha mai desiderato generare né gente né libri mansueti, compiacenti, accondiscendenti. Fate casino.»[Dare la vita, di Michela Murgia, a cura di Alessandro Giammei, Rizzoli 2024]
E voi? Quante volte avete avuto la sensazione di essere dentro la centrifuga? Stessa riunione, stesse e-mail, stessi sorrisi stirati. Vi siete mai chiesti: questa vita è mia, o è solo il mio CV che sta vivendo al posto mio, rinunciando a tutto il resto?
Ecco, questo non sarà l’ennesimo format motivazionale. Ma un invito scomodo. Non a cambiare lavoro – ma a disinnescare l’automatismo. A fare pace tra epoche e approcci. A riconoscere che l’innovazione intergenerazionale non è anagrafica, ma neuro-affettiva e culturale. A fare meno nottate ma a interrogarci: quali sono le regole che ho accettato senza accorgermene? Quali “doveri” sto recitando per paura di cambiare? Quanto rimetto in circolo i miei privilegi?
Nei prossimi incontri con la Fondazione Marisa Bellisario divulgheremo questi temi attraverso iniziative di mentorship ed empowerment. Unisciti per guida e attivazione partecipate. Se vuoi affiancarci con il tuo supporto, scrivici!
* Ricercatrice al Politecnico di Milano e a Parigi sulla sostenibilità sociale, Pedagogista e consulente nelle Risorse Umane