Fondazione Marisa Bellisario

L’AMERICA RESTERÀ SOLA?

di Ornella del Guasto*

L’atteso shock internazionale è arrivato e adesso tutti i problemi sembrano cristallizzati, senza soluzione, dalla ricerca del proprio tornaconto da parte di ogni protagonista, lasciando nel panico gli interlocutori. Nonostante si continui a discutere inutilmente su tregue “totali” o “parziali”, i dazi voluti da Trump sono stati varati mettendo a soqquadro il funzionamento dell’economia internazionale e trasformandosi in un vero e proprio bagno di sangue non solo per chi Trump voleva colpire ma anche gli stessi USA e Wall Street. Infatti il dollaro ha perso il 2% sulla media delle principali valute, un’immensità per il valore più liquido al mondo, scatenando subito la grande fuga dalla moneta solo fino a poco prima considerata una dei più sicuri beni rifugio. Visto il tracollo della situazione Trump è stato costretto all’ennesimo grottesco passo indietro: l’applicazione dei dazi viene rinviata di 90 giorni tranne che per la Cina i cui i dazi sono invece subito applicati e aumentati al 125%. Pechino però non si è fatta trovare impreparata e ha elevato le tariffe sui beni “made in Usa” dal 34% all’84% con effetto dal 10 aprile 2025, forte della formidabile arma di ricatto di detenere il secondo più importante debito pubblico americano (tanto che alcuni analisti non escludono che come rappresaglia ne abbia venduto una parte consistente per far crollare la moneta americana). È un fatto che 14.500 miliardi di dollari siano volatilizzati dalle borse mondiali solo nei cinque giorni successivi dall’annuncio dei dazi reciproci. Che poi ci siano stati fenomeni di insider trading a vantaggio di pochi speculatori che si sono ulteriormente arricchiti dai rimbalzi delle quotazioni, le perdite sul risparmio in azioni del semplice cittadino americano sono state notevoli.

Ma anche la frenesia di Trump di fermare la Cina sugli altri fronti caldi è in stallo, dato che in Ucraina e in Medio Oriente i cannoni continuano a sparare moltiplicando il carico di morti. Il problema è che il dialogo tra Putin e Trump, finora contrabbandato come un “ottimo rapporto”, nella pratica è basato più sulle affinità ideologiche e le convenienze che sulle intese raggiunte. L’irrisolto caos geopolitico quindi sta scivolando irresistibilmente verso un potere tripolare: gli USA che vogliono decidere per tutti rischiando l’isolamento, la Russia affrancata dal giogo cinese che si sente tornata protagonista, la Cina apparentemente conciliante che studia silente le mosse più incisive e le eventuali ritorsioni. In questo contesto infatti Pechino che è la principale potenza commerciale dell’Asia-Pacifico e una potenza militare in rapida ascesa, nonostante il rallentamento della sua economia, si fa sempre più convinta che gli Stati Uniti non siano più in grado di bloccarla. Con la sua logica Trump invece pensa il contrario e punta al suo principale obiettivo che è il fronte asiatico utilizzando Mosca come leva per contenere Pechino perché è convinto che la reintegrazione della Russia nei mercati globali – da qui l’idea di rianimare il G8 – riducendo la dipendenza economica russa dalla Cina ne indebolirebbe il ruolo nella regione.

Per lo spettatore frastornato dalla ininterrotta mutazione degli eventi anche le professioni alternanti di amicizia o attrito tra Trump e Putin sono difficilmente decifrabili dato che potrebbero essere create ad arte per nascondere le loro reali intenzioni, mentre inascoltato l’alto commissario Onu per i diritti umani denuncia che la situazione nelle aree di crisi sta peggiorando e il resto del mondo vede inquieto l’inizio di una drammatica recessione globale.

È una quasi certezza però che al momento Trump sia arrabbiato anche con la Russia perché sia Mosca sia Kiev hanno respinto la nuova bozza che lui aveva proposto per una tregua del loro conflitto. Lo stallo creato dal gran rifiuto dei due è indubbiamente un grave colpo alla credibilità di Trump, che dall’inizio del conflitto sbandierava ai quattro venti di essere “l’unico in grado di arrivare rapidamente alla pace”. L’intero processo diplomatico è così finito su un binario morto inceppando la partita geopolitica della Casa Bianca che ora ha fretta e non vuole impantanarsi in un negoziato estenuante, consapevole che per poter procedere nella realizzazione delle sue ambizioni ha bisogno di liquidare rapidamente “il dossier Ucraina” per passare ad affrontare il “dossier Groenlandia”.

Ma perché Trump vuole impossessarsi di un deserto di ghiaccio come la Groenlandia con poco più di 500 mila abitanti? Perché impadronendosi delle sue risorse minerarie sarà in grado di sfidare Pechino nella corsa tecnologica. Nella regione di Kvanefjeld nel meridione dell’isola nordica si trova il secondo deposito al mondo di ossidi di terre rare, un giacimento fondamentale per Washington. I ricercatori americani hanno previsto infatti che entro il 2050 la domanda di metalli e minerali indispensabili per la transizione energetica e digitale aumenterà del 500% e nel sottosuolo della Groenlandia è nascosto un autentico tesoro composto di terre rare, di scandio, ittrio e dei 15 lantanoidi cruciali per realizzare batterie dei veicoli elettrici, chip per l’intelligenza artificiale, pannelli solari, sistemi di difesa, reti per le telecomunicazioni…insomma tutte le risorse minerarie considerate le più preziose del XXI secolo, diventate leva strategica nelle relazioni internazionali.

La distribuzione globale delle terre rare è oggi in evidente situazione di squilibrio dato che la Cina ne possiede vasti giacimenti e produce già il 70% circa e raffina oltre l’’85% del totale mondiale di queste risorse, grazie a un mix di vantaggi competitivi: riserve abbondanti, manodopera a basso costo e normative ambientali meno restrittive rispetto ai Paesi occidentali.

Secondo il suo stile quindi Trump si è detto pronto a prendersi la Groenlandia “se necessario anche con l’uso della forza militare”, guadagnandosi immediata la dura risposta del neo premier Jens Frederik Nielsen: “La Groenlandia è nostra, così è stato ieri, così è oggi e così sarà in futuro”.

La Groenlandia appartiene ufficialmente al regno di Danimarca, ma decide in modo indipendente sulla maggior parte delle sue questioni politiche perché solo gli Affari esteri e la Difesa sono gestiti dal governo di Copenaghen. Le reazioni alle pretese americane sono state immediate: un’ondata di nazionalismo è dilagata nell’isola artica e l’opposizione di centrodestra che ha vinto le elezioni legislative ha chiesto di raggiungere rapidamente l’indipendenza “anche se il Governo, per addolcire la pillola, si è detto disponibile a rispettare il bisogno degli USA di avere una maggiore presenza militare nella regione e che quindi, Danimarca e Groenlandia sono pronte a discuterne” riferendosi a un accordo di Difesa siglato nel 1951 che “offriva agli Stati Uniti ampie opportunità di una presenza militare” fino a oggi trascurato tanto che sul territorio è presente una forza di soli 200 militari.

Tuttavia alcuni osservatori sono pessimisti sul “sequel della storia” e anzi non escludono che Trump possa attaccare subito dopo anche l’indipendenza della Danimarca, dato che fino a oggi sono arrivate più minacce che proposte di dialogo. Ma non solo la Danimarca, viste le crescenti tensioni, sono in allerta tutti i paesi Baltici, in primis la Norvegia che dopo la vicenda Ucraina e la ripresa delle esercitazioni militari russe nell’Artico dopo tanto tempo ha deciso addirittura di riattivare, alcune delle sue strutture sotterranee più importanti, bunker militari scavati nelle montagne che al tempo della Guerra Fredda erano basi segrete dove nascondere navi e aerei.

Si sta quindi accendendo un nuovo Grande Gioco, questa volta non nelle consuete zone calde nell’Asia centrale e nemmeno in Ucraina, Gaza o nel Mar Cinese Meridionale, ma piuttosto nelle gelide acque dell’Artico. E il predominio in questa regione sarà cruciale per il controllo strategico dell’intero emisfero occidentale

*Political and socio-economic analyst

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