Fondazione Marisa Bellisario

I DAZI DI MR. TRUMP 

di Floriana Cerniglia*

Le recenti decisioni di Trump (metto il dazio, tolgo il dazio) rappresentano uno shock per l’economia mondiale a cui non eravamo abituati e gettano le premesse per nuovi equilibri geopolitici sempre più caratterizzati da tentazioni nazionaliste e protezionismi economici.

Anzitutto, bene spiegare cosa è un dazio. È un’imposta sulle importazioni che produce un cuneo tra il prezzo pagato dal consumatore (che aumenta) e quello ottenuto dall’impresa estera (che diminuisce). Si avvantaggiano le entrate del governo che mette un dazio. A causa di un amento del prezzo del bene finale, si riduce la quantità del bene domandato (cioè, importato).  La perdita complessiva – sia del consumatore sia dell’impresa – supera le entrate del governo. E dunque, quali sono le motivazioni dietro le scelte di Trump se c’è una perdita di efficienza complessiva per il sistema economico, in primis quello americano?

Certamente il primo obiettivo è frenare il flusso di automobili cinesi sul mercato americano. Per la Cina esportare è ormai sempre più facile. Se nel passato questo Paese aveva guadagnato competitività e posizioni nei mercati internazionali grazie al basso costo del lavoro, alla possibilità di poter svalutare la sua moneta e stabilendo barriere non tariffarie, adesso la Cina ha ulteriori elementi di forza sui mercati: possiede le terre rare e produce beni (non solo le automobili, ma anche pannelli solari ad esempio) che hanno raggiunto livelli di efficienza e tecnologia insuperabili. Nel 2021 la Cina ha depositato il 37,8% dei brevetti mondiali, gli USA il 17,8%. Chiaro che questo salto in avanti è stato possibile con una competizione non fair con altri Stati; la Cina “controlla l’economia” anche con aiuti di Stato mentre negli ultimi decenni i Paesi ad economia di mercato (quelli della UE soprattutto) hanno persino abbandonato l’idea che si debba fare una politica industriale anche con ingenti investimenti pubblici. Tale necessità e urgenza è finalmente al centro dell’agenda politica. Il rapporto Draghi è tutto in questa direzione.

C’è un secondo obiettivo nelle recenti decisioni di Trump: riportare la manifattura in America sia per aumentare i posti di lavoro ma soprattutto per ridurre l’enorme deficit commerciale degli Stati Uniti con il resto del mondo. La sua concezione di politica economica è che la potenza di una nazione dipende dal suo surplus commerciale. Intento per la verità non molto difforme da quello che anche Biden aveva iniziato a fare agendo con la politica dei sussidi alle imprese (Chips&Science Act e Inflation Reduction Act) anziché con i dazi. Ammesso e non concesso che i dazi possano azzerare lo squilibrio commerciale, difficile immaginare una riconversione così repentina della forza lavoro americana verso la manifattura dato che gli Usa negli ultimi decenni si sono sempre di più specializzati nei servizi che esportano e che soprattutto noi europei compriamo. Ad esempio, dal 2019 al 2024 il deficit commerciale della UE-27 con gli Usa nei servizi è salito da 17 a 148 miliardi tant’è che il deficit commerciale complessivo (cioè, di beni e di servizi) degli Usa con la UE-27 è diminuito (passando dai 170 miliardi di euro del 2019 a 110 miliardi del 2024). Questi dati inducono a pensare che nei confronti della UE, l’atteggiamento muscolare di Trump è più un’arma negoziale da usare per altri fronti (la crisi ucraina probabilmente) e non dettato soltanto da esigenze di bilancia commerciale tout court. Quale opzione esercitare per l’Europa è ora molto complicato. Comprare più armi e gas dagli Usa o cominciare a stimolare la domanda interna e cooperare con altri mercati, ad esempio i paesi Brics e del Global South? Certo è che – in un mondo sempre più conflittuale – soltanto un’Europa più unita può rendersi meno vulnerabile a ripicche e ritorsioni, riuscire ad imporre contromisure e promuovere le condizioni macroeconomiche di un nuovo ordine internazionale. L’alternativa non deve essere tra guerre commerciali e libero scambio, ma un commercio internazionale regolato che cerca soluzioni cooperative. Le guerre commerciali comportano sempre dei perdenti, ma questo non significa che va accettata la concorrenza sleale di Paesi che sussidiano fortemente l’industria nazionale per spiazzare le imprese di altri Stati. Bene anche non dimenticare che molte guerre militari sono scaturite da guerre commerciali e politiche del “rovina il mio vicino”.

*Professore ordinario di economia politica, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore

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