Il testo della Lectio Magistralis tenuta il 9 aprile all’università Politecnica delle Marche
Due parole nel titolo di questa mia lezione indicano la rotta che seguirò. Cammino: indica un percorso che nel caso delle donne è stato lungo e accidentato e non è ancora compiuto. Effettiva: indica che, nonostante gli innegabili passi avanti, le conquiste formali, la parità attiene a una sfera molto più ampia, che non si esaurisce con leggi ma attiene a un cambiamento culturale profondo.
“Nasce finalmente una democrazia di donne e di uomini”: così Teresa Mattei, la più giovane costituente italiana, celebrava l’approvazione del principio di eguaglianza nella Costituzione. Ma oggi è davvero così?
A settant’anni dalla Costituente, il bilancio della democrazia paritaria è certamente propositivo ma pieno di ombre. Se la “rivoluzione femminile è l’unica rivoluzione non fallita del Novecento”, come scriveva lo storico britannico Eric Hobsbawn, è sempre più evidente come si tratti di una rivoluzione incompiuta e sotto attacco, insidiata, come tante altre conquiste del secolo scorso. In primo luogo per la difficoltà di tradurre in realtà le tante norme che sono state adottate negli anni, grazie alle lotte dei movimenti delle donne. Norme, a partire da quelle costituzionali, come l’articolo 3, destinate a scontrarsi con una società permeata di stereotipi e pregiudizi. In secondo luogo per una tendenza attuale e pericolosa in tante parti del mondo, anche le più sviluppate, a mettere in discussione i diritti delle donne.
“Parità ambigua” è stata definita. Un’ambiguità che si riflette in tanti, troppi ambiti: dallo squilibrio che rimane ai vertici – che siano istituzionali, accademici o economici -, alla mancata libertà di scelta tra famiglia e carriera fino alla violenza di genere, sintomo di conflitti mai risolti tra i due sessi. E mentre da anni proviamo a risolvere vecchi squilibri, se ne profilano di nuovi, dalla medicina di genere all’Intelligenza Artificiale.
Ma sarebbe irrealistico non riconoscere i tanti passi in avanti compiuti e su tutti uno: la consapevolezza.
Negli anni delle battaglie femministe, cui ho convintamente preso parte, il termine consapevolezza aveva un solo aggettivo: femminile. Gli straordinari cambiamenti intervenuti nella forma e sostanza dello stato democratico e della società italiana portano nomi di donne che si sono battute con coraggio e determinazione per stravolgere una legislazione e una cultura che le voleva relegate a un unico ruolo di accudimento domestico. Forse è utile ricordare che nel Codice di Famiglia del 1865 le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi, né tanto meno quello ad essere ammesse ai pubblici uffici. Se sposate, non potevano gestire i soldi guadagnati con il proprio lavoro e veniva ancora chiesta l’”autorizzazione maritale” per donare o alienare beni immobili, per contrarre mutui o riscuotere capitali e anche per ottenere la separazione legale. La pena per la donna adultera era la detenzione da 3 mesi a due anni… “La donna, insomma, è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostentata da sé”. Parole pronunciate da un illustre pensatore del Risorgimento come Gioberti. Simili teorie furono alla base del diritto di famiglia dell’Italia unita, riformato soltanto nel 1975.
Tra le tappe del cammino femminile una delle più importanti è certamente il diritto di voto e mi fa piacere ricordare che è dalle Marche che parte il primo e più famoso appello per il voto alle donne. È il 1906 e dalle colonne del giornale “La vita”, Maria Montessori, la prima laureata in medicina, lancia un proclama che inizia così: “Donne tutte: sorgete! Il vostro primo dovere in questo momento sociale è di chiedere il voto politico!”. Affisso sui muri capitolini, quest’appello ha un’eco vastissima in tutta la penisola e spinge centinaia di italiane a presentare la richiesta di iscrizione alle commissioni elettorali provinciali: non senza sorpresa, undici di queste commissioni, da Palermo a Venezia, accolgono le domande che però vengono in seconda istanza bocciate dalle relative Corti di appello. Con l’eccezione della Corte di appello di Ancona che il 25 luglio 1906 emise una sentenza che assegnava il diritto di voto a dieci maestre dell’Anconetano. La vicenda durò quasi un anno ma alla fine quella sentenza lungimirante venne annullata dalla Corte di Cassazione. Nel frattempo, tutti i progetti di legge per garantire il voto alle donne, uno ogni legislatura, venivano regolarmente bocciati.
Come sappiamo, dovremo aspettare il 2 giugno del 1946, quando le donne votarono per il Referendum istituzionale e per le elezioni della Assemblea costituente ma già nelle elezioni amministrative precedenti avevano votato risultando in numero discreto elette nei consigli comunali. Sui banchi dell’Assemblea costituente sedettero le prime parlamentari: 21 donne. Il diritto di elettorato attivo e passivo finalmente diventa realtà.
È la Costituzione a garantire per prima l’uguaglianza formale fra i due sessi, ma di fatto restavano in vigore tutte le discriminazioni legali vigenti durante il periodo precedente, in particolare quelle contenute nel Codice di Famiglia e nel Codice Penale. Tuttavia, nel solco della Costituzione, si avvia un percorso di autonomia e di emancipazione che ha smantellato gradatamente tre roccaforti: reclusione nella famiglia, esclusione dal lavoro, sottomissione con la violenza. Un percorso che è stato segnato da leggi che hanno “certificato” e al contempo ampliato il nuovo ruolo femminile in tutti gli ambiti.
Una rivoluzione pacifica – non economica ma di costume certamente – che ha avuto come protagoniste le donne, le manifestazioni di piazza, le determinate azioni delle pioniere della politica ma anche la Fondazione Marisa Bellisario che negli suoi 37 anni di vita ha contribuito a tante delle conquiste femminili. Un percorso tracciato anche dalle donne che nel corso degli anni hanno espugnato tutte o quasi le roccaforti maschili.
Nel 1932 Maria Magnetti è la prima donna a entrare in un CdA;
nel 1948 Lina Merlin varca per la prima volta il portone del Senato;
nel 1976 Tina Anselmi occupa il dicastero del Lavoro, prima donna ministro in Italia;
nel 1979 Nilde Iotti diventa la prima Presidente della Camera dei deputati donna;
nel 1981 Marisa Bellisario è la prima donna CEO di un’azienda pubblica;
nell’84 la Senatrice Elena Marinucci viene chiamata a presiedere la prima Commissione delle Pari opportunità fortemente voluta dal Governo di Bettino Craxi. Che diventa poi il Ministero delle Pari opportunità.
Dobbiamo aspettare il 1992 perché Biancamaria Tedeschini Lalli diventi la prima rettrice della storia d’Italia.
Perché proprio in questa sede è importante ricordare quanto faticoso ma inarrestabile fu il cammino sul fronte dell’istruzione. Solo nel 1874 viene permesso l’accesso delle donne ai licei e alle università, anche se in realtà continuarono a essere respinte le iscrizioni femminili. Ventisei anni dopo, nel 1900, risultano comunque iscritte all’università italiane 250 donne e quasi 10mila alle scuole professionali e commerciali. Quattordici anni dopo le iscritte agli istituti di istruzione media saranno circa 100mila. La prima laureata in ingegneria è Emma Strada, anno 1908.
E dall’1989 è il Premio Marisa Bellisario a “incaricarsi” di mettere sotto i riflettori non solo le donne dei primati, pioniere come il primo avvocato generale dello Stato o la prima astronauta, ma anche storie di ordinaria eccellenza in tutti i settori. Scorrendo più dei 600 nomi delle Mele d’Oro si ripercorre la storia dell’emancipazione, dei traguardi, del cammino femminile verso un’effettiva parità.
E negli ultimi anni i progressi si sono fatti sempre ravvicinati: la prima Presidente del Senato, della Corte Costituzionale e di Cassazione, la prima ragioniera generale dello Stato. Da marzo la prima governatrice dello Stato del Vaticano, la Mela d’Oro Suor Raffaella Petrini. E consentitemi un inciso: il coraggio e la determinazione Papa Francesco ha assegnato alle donne un ruolo di primissimo piano dentro la Chiesa, sottolineando a più riprese l’importanza della presenza delle donne ai vertici. E arrivo all’oggi e al traguardo più alto di sempre. Dopo 65 governi retti da 31 Presidenti del Consiglio uomini. La prima donna Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, anche lei Premio Bellisario, aveva appena 31 anni ed era la più giovane ministra della Repubblica italiana. Nel frattempo anche l’Europa segna una svolta epocale con 3 donne alla guida di Commissione, Parlamento e Banca Centrale europea.
Insomma, un nuovo protagonismo femminile è nei fatti. E viaggia di pari passo con quella consapevolezza di cui parlavo prima.
Alla consapevolezza femminile, quella che ha fin qui trainato i progressi delle donne in ogni ambito, si affianca una consapevolezza diffusa. La parità non è più un obiettivo di parte, non è più una questione femminile. La parità è oggi il fondamento della sostenibilità sociale ed economica. Ce lo dicono gli studi, lo confermano economisti e premi Nobel. È diventato un dato di realtà.
Al contempo sappiamo che quella parità – unica via a uno sviluppo equilibrato delle nostre società ed economie – non può essere raggiunta solo attraverso strumenti legislativi.
Negli ultimi 30 anni il Parlamento ha ben operato con una serie di azioni positive che rendono la nostra tradizione giuridica particolarmente attenta alla promozione e tutela della condizione femminile. Le misure a favore delle donne hanno segnato il nostro progresso democratico e civile e rappresentano i momenti di maggiore maturità e concordia del nostro sistema parlamentare.
Tra le tante iniziative segnalo quella per la quale ho combattuto strenuamente in Parlamento: la legge sulle quote di genere nei CdA delle società quotate e partecipate che mi onoro di aver elaborato, presentato e portato all’approvazione. Diventata legge nel 2012, in 10 anni quella norma ha letteralmente stravolto il sistema economico italiano: se nel 2011 le donne nei CdA era il 5,9% oggi hanno superato il 43%, facendo dell’Italia l’avamposto d’Europa, al terzo posto dopo Francia e Germania. Una “rivoluzione gentile” i cui effetti positivi hanno impresso una forte accelerazione alla leadership femminile in ogni ambito. Partendo dall’esperienza concreta delle aziende “costrette” a includere le donne e che oggi possono contare su board più giovani e istruiti, su risultati migliori, in termini di ritorno sul capitale e margine netto di profitto, e su un valore azionario crescente correlato alla parità. Un modello di successo che ha convinto il legislatore a reiterare la norma, alzando l’asticella al 40%, e che recentemente è stato recepito dall’Europa con la direttiva “Women on boards” approvata, dopo dieci anni di accese discussioni. Al di là dei numeri, la legge sulle quote ha avuto l’innegabile merito di risvegliare non solo il dibattito sull’importanza del contributo femminile ai vertici ma sulle pari opportunità. Un dibattito che all’indomani delle grandi conquiste degli anni sessanta e settanta si era placato. E ha avuto il grande merito di introdurre il tema delle quote – e quindi di un meccanismo che forzi un sistema inceppato che non riconosce i talenti femminili – in tutti gli ambiti e settori. Dalla politica alle professioni, le quote si sono affermate come uno strumento fondamentale per accelerare un cambiamento necessario.
Altre e importanti iniziative legislative sono seguite, sia a livello nazionale sia comunitario. Penso alle ultime in ordine di tempo, dalla direttiva sulla trasparenza retributiva che entrerà in vigore nel 2026 alla norma che rende il femminicidio reato penale autonomo in quanto «atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna». Accanto alle leggi, negli anni si sono moltiplicate le azioni positive, gli incentivi, i bonus diretti alle donne e alle aziende – si pensi al successo della certificazione per la parità di genere, quasi 7mila aziende certificate a fronte di un obiettivo iniziale di 800 aziende entro il 2026- con lo scopo di sanare un disequilibrio che nei fatti resta marcato.
Parto non a caso dalla leadership e dai numeri e non per una forma di elitarismo. Le leadership sono lo specchio della società e la leadership femminile, lungi dall’esser data e raggiunta, è in continua, complessa, faticosa costruzione. Gli step sono lenti, dal laboratorio della Fondazione Marisa Bellisario li monitoriamo e da 37 anni cerchiamo di facilitare un percorso fondamentale per la crescita del Paese. Ancora oggi, la presenza femminile in economia, in politica, nelle professioni è ormai radicata alla base ma si dirada ai vertici. Nonostante la modifica dell’art. 51 della Costituzione e l’introduzione di norme specifiche per l’elezione al Parlamento Europeo e per la modifica degli statuti regionali, abbiamo appena due donne Presidenti di Regione, 9 sindache in Comuni con più di 100mila abitanti. Delle 177 ambasciate, solo 24 sono presiedute da donne.
Anche in ambiti fortemente femminilizzati come la Sanità – dove le donne sono il 67% della forza lavoro – le dirigenti nella fascia apicale si fermano al 25%. Stessa cosa accade nell’Istruzione dove sono in grandissima maggioranza ma poi in cattedra sono meno di 3mila le ordinarie contro oltre 12mila uomini, 14 Rettrici contro 71 Rettori. Più della metà dei magistrati italiani sono donne ma il 70% delle posizioni a carattere di vertice, dal Consiglio Superiore della Magistratura in giù, sono in mano maschile. Fino ad arrivare alle aziende: in Italia ci sono circa 6 milioni di imprese, di cui solo 1,3 milioni amministrate da donne. Nonostante la rivoluzione nei board introdotta dalla mia legge, nelle 34 società controllate o partecipate dal MEF, le CEO sono appena 6. Tra le 50 aziende a maggiore capitalizzazione quotate alla borsa di Milano, sono il 4%. Se prendiamo in considerazione tutte le quotate, le CEO sono 20, le Presidenti 31. Non va meglio nel resto d’Europa, dove le CEO sono appena il 7.6%.
Potrei continuare all’infinito, mi fermo qui. Nel mondo del lavoro, nonostante il record di occupazione femminile degli ultimi mesi, permangono i divari. L’Italia resta l’ultimo Paese europeo per tasso di occupazione femminile, 12,6 punti percentuali ci separano dalla media Ue, 18 dall’occupazione maschile, il doppio di quanto accade negli altri Paesi. Permane una marcata segregazione orizzontale: circa la metà dell’occupazione femminile risulta concentrata in sole 21 professioni, mentre per gli uomini questo valore raggiunge ben 53 come certifica il CNEL. E la così bassa percentuale di ragazze laureate in materie STEM, appena il 16,8%, e di professioniste che lavorano nel digitale rischia non solo di perpetrare ma di allagare la forbice e l’esclusione delle donne dal mercato del lavoro e dalle professioni a più alto valore aggiunto. Il percorso lavorativo delle donne è discontinuo, una su cinque lascia il lavoro dopo il primo figlio, e una su due dopo il secondo. Il 49% di quelle che restano al lavoro è costretta a ripiegare in un impego part time, gli uomini sono il 26%. Aggiungiamo il divario retributivo che arriva al 20% e arriviamo a pensioni femminile più basse del 37% come segnala l’Inps.
Due dati spiegano il valore e le conseguenze di questi numeri.
12% è l’aumento del Pil se l’Italia riuscisse ad aumentare il tasso di occupazione femminile portandolo al livello di quello maschile entro il 2050. 12%!!
Meno 10mila i nati nel 2024, un altro record storico negativo che pone la denatalità come la nuova questione sociale universale. Una battaglia di unità nazionale in cui non c’è posto per nessun tipo di divisione.
Chiudo con l’ultimo dato, questo ancora più terrificante: sono oltre 1800 le donne vittime di femminicidio negli ultimi 10 anni. Una donna uccisa ogni due giorni. E la settimana scorsa due giovani donne in una giornata, entrambe per mano di due giovani uomini. Studenti e studentesse!
Non è mio compito, qui e oggi, delineare le soluzioni. Il governo in carica dal 2022 ha fin qui dimostrato di aver chiaro come la “questione femminile”, e lo metto tra virgolette, rappresenti non una priorità ma LA PRIORITA’.
D’altro canto, il lavoro che ho condiviso e al quale ho partecipato nei gruppi internazionali, dal W20 all’ultimo W7, certificano come, al di là dei ritardi del nostro Paese, il tema dell’equa partecipazione femminile travalichi ogni confine. La prima Conferenza Internazionale sulle Donne si tiene nel 1975, a Città del Messico con la partecipazione di 133 Stati. Durante la quarta e ultima Conferenza a Pechino nel 1995 partecipano oltre 5mila delegati di 189 governi. È a Pechino che viene per la prima volta elaborato il concetto di “empowerment”: la rimozione di tutti gli ostacoli a una piena partecipazione delle donne alla vita sociale, culturale, economica e politica di un Paese. L’ultimo piano d’azione dell’Unione europea sulla parità di genere mira ad accelerare il cammino, salvaguardando i progressi compiuti in materia di uguaglianza nei 25 anni trascorsi dalla Dichiarazione di Pechino e della sua Piattaforma d’azione. E il 7 marzo 2025 la Commissione europea ha adottato la tabella di marcia per i diritti delle donne. L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite pone la parità come obiettivo numero 5 e lo considera fondamentale per costruire un mondo sostenibile, pacifico e prospero.
È la sfida della modernità e del progresso e riguarda tutti gli attori internazionali, i grandi della Terra e tutti noi, a partire dall’educazione dei nostri figli e figlie.
La dottrina che si occupa di discriminazione è concorde nel ritenere che gli strumenti normativi e giuridici sono necessari ma insufficienti. Le istituzioni devono essere in prima fila nella rimozione di tutte le situazioni di ingiustizia ma per il raggiungimento di un’effettiva e compiuta parità servono sinergie con il mondo economico e del lavoro, con la scuola e i media, con la società civile e l’opinione pubblica. Si tratta di scardinare un impianto culturale secolare intriso di stereotipi e pregiudizi, di accompagnare un cambiamento inevitabile e necessario. Di far diventare effettiva la parità ancora incompiuta e paritaria la democrazia dimezzata.
E chiudo con una frase di Marisa Bellisario di 40 anni fa…“Il mio ottimismo e le mie certezze derivano da due cose: possiamo avere un domani migliore dell’oggi perché molto dipende da noi”.