Fondazione Marisa Bellisario

“SALVIAMO REYHANEH”: L’APPELLO DEL MONDO PER EVITARE L’ESECUZIONE

Dopo la decapitazione, avvenuta ieri in Siria, di tre miliziane curde per mano dell’Isis, il mondo ora tiene il fiato sospeso per le sorti di Reyhneh Jabbari, la ragazza iraniana di 26 anni la cui esecuzione per impiccagione, prevista all’alba di ieri in Iran, è stata rinviata di 10 giorni, probabilmente a causa delle proteste che si erano concentrate fuori dalle porte del carcere di Rajaishahr, nei pressi di Teheran, dove la donna era detenuta. L’iraniana era stata condannata a morte nel 2009 per l’omicidio, avvenuto due anni prima, di un ex funzionario del ministero dell’Intelligence che aveva tentato di stuprarla. Inizialmente, la donna si era attribuita la responsabilità dell’omicidio ma, in seguito aveva precisato di aver sì pugnalato il suo aggressore alle spalle ma che a ucciderlo era stato un altro uomo presente sul posto Il processo era stato infarcito di irregolarità e, alcuni mesi fa, Reyhaneh Jabbari è stata costretta a rinunciare al suo avvocato. Un precedente tentativo di mettere a morte la donna era stato scongiurato, nell’aprile 2014, grazie agli appelli pervenuti da ogni parte del mondo.
Ed ora la storia si ripete. Il suo caso ha avuto eco internazionale e una petizione, forte di oltre 190mila firme, ha chiesto il suo rilascio. Una campagna per fermare l’esecuzione è stata lanciata anche su Facebook e Twitter, con l’hashtag #SaveReyhanehJabbari. Un appello disperato all’Italia è arrivato poi dalla madre di Reyhaneh Jabbari. “Chiedo alle mamme italiane di dimostrarmi la loro vicinanza e di attivarsi perché mia figlia torni a casa”, così in un’intervista esclusiva ad Aki-Adnkronos International. “A me non è data la possibilità di mettermi in contatto con i governanti del mio paese – ha spiegato la donna – e chiedo quindi ai politici italiani che siano loro a fare arrivare la mia voce alle autorità iraniane. E chiedo al Pontefice di pregare per la mia bambina e al Vaticano di mettersi in contatto con le autorità religiose del mio paese, aiutando così una madre disperata”.
Sul caso di Jabbari si è espresso anche l’Onu, mentre artisti iraniani si sono mobilitati per salvarla raccogliendo fondi per il “diyeh”, il cosiddetto “prezzo del sangue” che il condannato deve pagare alla famiglia della vittima se questa è d’accordo a modificare la pena capitale in detenzione. Proprio ad aprile era sembrato che il figlio del funzionario ucciso fosse disposto ad accettare il “diyeh” se la ragazza avesse rivelato il nome di un secondo uomo che sarebbe stato nell’appartamento al momento dell’uccisione del padre. Solo quest’anno sono almeno 550 le persone giustiziate in Iran, ricorda Ihr.

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