Fondazione Marisa Bellisario

LE DONNE SECONDO L’ISIS

“Le donne dello Stato Islamico: un manifesto e un caso di studio” è il primo documento che racconta dall’interno la condizione della donna nel Califfato Islamico. Il documento è stato ripreso in questi giorni da diversi siti e giornali occidentali dopo che è stato tradotto dalla Quilliam Foundation, un think tank britannico che agisce contro gli estremismi in tutto il mondo
Il manifesto, redatto da un gruppo di donne combattenti dell’ISIS che si chiama brigata Al-Khanssaa, pur essendo chiaramente un documento di propaganda, offre un punto di vista molto interessante sulla vita delle donne nello Stato Islamico, ma anche sulla percezione critica dell’Occidente da parte dell’ISIS.
Il documento, di circa 40 pagine, è diviso in tre parti. La prima porzione è una lunga confutazione della cultura occidentale, facendo i conti in particolare con i temi del femminismo, dell’educazione e della scienza. La seconda parte è basata sulla testimonianza diretta dell’autrice (o delle autrici) della vita quotidiana nei territori ora controllati dallo Stato Islamico, prima nel territorio della città di Mosul e, in seconda battuta, di quello di Raqqa, in Siria. La terza è una discussione che mira a comparare la vita delle donne che vivono nei territori dell’ISIS in Siria e in Iraq con quello delle donne che vivono nella penisola arabica, in particolare in Arabia Saudita.
Il documento non è diretto alle donne musulmane in Occidente, ma il suo obiettivo è reclutare, attraverso un documento scritto espressamente in arabo, sostenitrici tra le donne arabe. Tra l’altro, secondo Quilliam Foundation, il manifesto «non sarebbe stato tradotto in inglese proprio perché sarebbe risultato poco efficace — forse addirittura contointuitivo — nel perseguire fini propagandistici in un pubblico occidentale».
Il principio da cui parte è che le donne musulmane debbano emulare la vita e i comportamenti delle figure femminili più importanti dell’Islam, ovvero Maria (la madre di Cristo, che secondo l’Islam è l’ultimo profeta prima di Maometto), Āsiya (madre di Mosé), Khadīja (prima moglie di Maometto) e a Fāṭima (figlia di Maometto), imitandone la purezza e la dedizione all’uomo. «Non c’è responsabilità più grande per la donna», si legge nel documento, «che quella di essere moglie».
Sorprendentemente, il documento indica negli uomini – nella loro attuale debolezza e incapacità di assumersi le responsabilità – la principale causa del fatto che le donne islamiche vengano troppo spesso meno al proprio ruolo.
Sempre nella prima parte del documento, si sostiene che «l’Islam dà all’uomo il compito di dirigere, mentre alle donne concede l’onore dell’eseguire» e si arriva ad affermare che le cose non vanno molto diversamente in occidente: «Così è come l’Umanità ha sempre funzionato, e così è come funziona ancora oggi anche negli stati “liberali” e nelle società “libere”».
Il documento — siamo ancora nella prima parte, quella relativa alla confutazione del modo di vivere occidentale — prosegue affermando un’altra cosa che forse qualcuno non si aspetterebbe: «La donna non può compiere il proprio ruolo se è analfabeta e ignorante. Per questo l’Islam non ordina in nessun modo che sia vietato alle donne studiare e farsi una cultura». Decisamente interessante e curioso è come vengano interpretati da questo documento i sussidi in favore delle donne in Occidente, aiuti che vengono intesi come prova evidente del fatto che i governi occidentali si contraddicano, sostenendo e promuovendo l’emancipazione delle donne, ma, nello stesso tempo, sostenendo economicamente chi di loro voglia tornare «a stare a casa e a badare ai propri figli». Il manifesto della brigata Al-Khanssaa individua quattro pensieri “diabolici” che avrebbero conquistato le menti femminili minando e distorcendo il loro ruolo nella società: la critica alla sedentarietà che le porta a non occuparsi della casa, il lavoro non domestico, la conoscenza del mondo piuttosto che quella della Sharia e, da ultimo, la moda e l’esasperazione estetica, «presentata dal Diavolo», dice il documento, «nei negozi di moda e nei saloni di bellezza».
Sul lato educativo la posizione del documento non sorprende molto: pur affermando che la donna non deve essere analfabeta e ignorante, ribadisce l’inutilità di una scolarizzazione prolungata, che viene vista piuttosto come una perdita di tempo, come un rinvio di un possibile matrimonio e come pericolo. «Infatti», si legge nel documento, «non c’è alcun bisogno che loro [le donne] corrano di qua e di là per laurearsi o altro, soltanto per poter cercare di provare che la propria intelligenza è maggiore di quella dell’uomo».
Ma le donne possono lavorare secondo l’ISIS? In generale il consiglio è quello di restare a casa, per accudire e crescere i figli insegnando loro le norme della religione, eppure qualche eccezione viene concessa. In particolare sono tre i casi in qui alla donna è permesso servire la comunità e non la propria famiglia: il primo è lo Jihad, ovvero la guerra contro gli infedeli, ma solo nel caso in cui il proprio paese è in pericolo e non ci siano abbastanza uomini per compattere e per proteggere il territorio. Il secondo, e più comune, è per studiare la “scienza della religione”, come è chiamata dal documento, ovvero la Sharia. Il terzo motivo è l’unico che c’entra effettivamente con il lavoro: ovvero il caso in cui la donna faccia il medico o faccia l’insegnante.
Sul concetto di “scienza” il documento è molto chiaro nel suo oscurantismo: «La maggior parte delle scienze sono inutili per i musulmani, sono una perdita di tempo, nonché una perdita di umanità. […] Sì, abbiamo detto “stare nelle vostre case” ma non significa che vogliamo sostenere l’ignoranza, l’arretratezza o l’analfabetismo. Vogliamo solo sostenere la distinzione tra il lavoro — quello che porta le donne a lasciare la casa — e lo studio, come attività che è stata loro ordinata».
Una parte che è stata citata molto spesso di questo manifesto è il capitolo intitolato “Suggestion for a curriculum for Muslim women”, di cui è citato in particolare il pasos relativo al piano ideale per l’ISIS per quanto riguarda l’educazione delle donne e che va dall’età di sette all’età di quindici anni:
Dai sette ai nove anni devono seguire tre tipi di corsi: fiqh [la giurisprudenza islamica, ndr] e religione, lingua araba coranica (scritta e letta) e scienza (contabilità e scienze naturali).
Dai dieci ai dodici anni proseguiranno con gli studi religiosi, specialmente con il fiqh, in particolare quello dedicato alle donne, al matrimonio e al divorzio e il loro funzionamento. In più impareranno a cucire, a fare a maglia e a cucinare.
Dai tredici ai quattordici deono focalizzarsi sulla Sharia, così come sulle doti manuali (specialmente quelle necessarie per crescere i figli) e occuparsi meno di scienze, le cui basi dovrebbero già aver studiato. In più studieranno la storia dell’Islam, la vita del Profeta e dei suoi seguaci.
Molti commentatori hanno concentrato le propri critiche sulla posizione del documento relativa al matrimonio, che sarebbe “prescritto” all’età di nove anni. In realtà, a quanto si legge dal documento tradotto dalla Quilliam Foundation, la frase, pur menzionando l’età minima posta a nove anni, suona in maniera leggermente diversa, perché dice che «è considerato legittimo che una ragazza sia data in sposa all’età di nove anni», ma aggiunge anche che «la maggior parte delle ragazze pure si sposano tra i sedici e i diciasette anni, quando sono anxcora giovani e attive».
C’è un ultimo punto che è interessante leggere, è quello dedicato al lavoro femminile, o almeno, ai pochi casi in cui secondo l’ISIS (ricordiamo, non secondo l’Islam) alle donne viene concesso di farlo lontane da casa. Questi sono i punti che le autrici di questa manifesto identificano come fondamentali:
1. Il lavoro deve essere appropriato alla donna e alle sue capacità e non deve durare più di quanto lei sia in grado di sopportare e non deve essere oltre le sue capacità.
2. Non deve impegnarla per più di tre gironi a settimana, e non deve durare troppo a lungo durante il giorno, così da non obbligarla a lasciare per molto tempo la casa.
3. Deve tenere conto delle sue necessità domestiche: della malattia dei figli, dei viaggi del marito. Deve insomma avere delle vacanze.
4. Le debbono essere garantiti due anni di maternità, almeno, per accudire i propri figli. […]
5. Deve esserci un posto adatto sul luogo di lavoro [un nido, ndr] dove poter lasciare i propri figli fino a che non arrivino all’età scolare.
La parte in cui è più forte la funzione di propaganda è la seconda, quella in cui racconta la situazione in Siria e in Iraq, in particolare nelle città di Ninive, Raqqa e Mosul:
Sappiamo bene che a Ninive, così come a Mosul e in tutte le altre province sunnite dell’Iraq c’era molta povertà, e questo era dovuto all’appropriazione indebita delle risorse da parte delle autorità sciite che hanno governato queste regioni nel passato […]. Ora, lo Stato Islamico sta facendo ogni sforzo per combattere la povertà e realizzare la giustizia sociale, come direbbe un economista.
Secondo il documento, nelle zone sottoposte all’autorità dello Stato Islamico, la situazione di estrema povertà sarebbe migliorata grazie alla zakat, la carità — che è uno dei cinque pilastri dell’Islam — e che viene distribuita sotto il controllo delle autorità soprattutto alle donne in difficoltà, dice il documento. Alle donne in difficoltà, poi, sempre secondo il documento di propaganda, sarebbe stata concessa la sanità gratuita in tutto il territorio governato dall’ISIS.
MA

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