di Paola Profeta
Il basso tasso di occupazione femminile italiano è una delle (tristi) certezze del nostro mercato del lavoro. Inchiodato a circa il 47% da prima della crisi, dopo decenni di costante sia pur lentissima crescita, oscilla solo di qualche decimo da una rilevazione Istat alla successiva. Restiamo tra gli ultimi in Europa, seguiti solo da Grecia e Malta.
Il dibattito sulla parità di genere in Italia si è intensificato e allargato negli ultimi anni. È un tema trasversale di cui tutti i soggetti economici sono chiamati a occuparsi, perché occupazione femminile non significa solo pari diritti, ma soprattutto crescita economica, opportunità di produrre reddito e ricchezza in un Paese in cui le risorse sembrano sempre più scarse e la ricerca di nuove strade per lo sviluppo è prioritaria. Le donne hanno da anni superato gli uomini nei livelli di istruzione, il lavoro femminile è riconosciuto come il principale motore di crescita dell’economia mondiale degli ultimi decenni. Il nostro basso tasso di occupazione femminile può quindi essere letto anche come un’opportunità, che l’Italia deve sfruttare per far crescere il Paese.
Come trasformare questa opportunità in risultato? Siamo partiti dai vertici, dalle posizioni più alte.
La legge Golfo-Mosca (120/2011) che introduce quote temporanee di rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società quotate in Borsa, estesa anche alle società a controllo pubblico, è stata giustamente celebrata come il grande risultato di questi anni, una rivoluzione per il nostro Paese. Grazie alla legge siamo passati dal 6% di presenza femminile nei Cda delle società quotate a circa l’attuale 23%. La legge, una forzatura a tempo necessaria per rompere un equilibrio basato sul potere maschile, è diventata un modello in Europa. Oltre ad aumentare il numero di donne, anche al di là della soglia prevista, ha innescato un rinnovamento benefico dei consigli di amministrazione, allargando la platea dei candidati, uomini e donne, e favorendo l’ingresso di consiglieri più giovani, mediamente più istruiti e più qualificati, che presumibilmente porteranno le società a risultati migliori.
Le quote alzano l’asticella del merito per gli uomini. La sfida attuale, tutta da verificare, è l’effettiva rottura del glass ceiling, il soffitto di vetro che ostacola le carriere femminili: siamo in presenza di un meccanismo a cascata verso il basso, che comporta un aumento delle donne in posizioni manageriali? Un processo da monitorare con attenzione, visto che si innesta su meccanismi di selezione e promozione tipicamente non neutrali rispetto al genere. Il tema quote di genere non si è fermato al mondo aziendale, ma si è esteso alla politica, dove, peraltro, le esperienze di quote non sono una novità.
La legge 215/2012 prevede per i comuni italiani con più di 5000 abitanti l’introduzione di quote di genere nelle liste dei candidati e della doppia preferenza di genere alle elezioni. Evidenze preliminari di uno studio in corso all’Università Bocconi mostrano che queste misure sono state efficaci nell’aumentare il numero di donne elette, in particolare la doppia preferenza di genere. La soglia dei 5000 abitanti tuttavia potrebbe non essere stata la più appropriata, poiché non osserviamo un salto significativo nella quota di candidate donne a seguito dell’introduzione del sistema di quote di genere intorno a questa soglia. Analisi sull’esperienza passata di quote di genere nelle elezioni municipali italiane (nel periodo 1993-1995) mostrano anche che le quote in politica possono migliorare la qualità dei politici eletti, grazie alla selezione di uomini più competenti, un risultato da verificare anche in questo caso. Sempre in politica, la legge 56/2014 fissa una quota del 40% di rappresentanza di genere nelle giunte dei comuni con popolazione superiore ai 3000 abitanti. Molti comuni però non hanno rispettato questo limite. Un’occasione mancata per aumentare la presenza femminile nelle decisioni che riguardano i cittadini.
La politica è comunque la dimensione che ha registrato i maggiori progressi per parità di genere negli ultimi anni: grazie anche alla maggiore presenza di donne nelle posizioni di governo, culminata nella sostanziale parità del governo Renzi, che vede il 50% dei ministri donne, l’Italia è risalita dal 71-esimo posto del 2012, al 44-esimo posto del 2013 fino all’attuale 37-esimo posto, su 142 paesi, secondo l’indicatore di uguaglianza di genere in political empowerment della classifica del World Economic Forum (Global gender gap Index, di cui La27ora ha scritto questo). Lo stesso non si può certo dire della parità di genere nella dimensione economica, che ci ha sempre visto intorno alla 100-esima posizione, precipitata al 114-esimo posto nell’ultimo anno. Segnali su cui riflettere, che ci riportano al problema dell’accesso delle donne al mondo del lavoro, rimasto fanalino di coda nell’agenda di questi anni, schiacciandoci al nostro 47%.
Cosa ci riservano il presente e il futuro? Il Jobs Act e il decreto legislativo in materia di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro sono elementi utili per la riflessione sulle politiche attive a favore del lavoro femminile, partendo, finalmente, dall’accesso al lavoro. Il decreto tocca il nodo centrale in tema di occupazione femminile in Italia, la maternità. Il numero di donne che abbandona il lavoro dopo la nascita di un figlio continua ad aumentare nel nostro Paese — fenomeno che contribuisce in larga misura non solo a tenere fermo il nostro tasso di occupazione femminile ai livelli più bassi, ma anche a frenare il tasso di fecondità. Al momento però nel decreto si prevede solo l’estensione dell’indennità di maternità e forme di tutela inclusiva della maternità. Non c’è invece riferimento nel decreto legislativo alle due misure discusse nel Jobs Act che potrebbero favorire l’occupazione femminile, e su cui quindi va tenuta alta l’attenzione: il tax credit, un credito d’imposta per le donne lavoratrici, al di sotto di un certo reddito, con figli minori e la promozione dell’integrazione pubblico-privato nell’offerta di servizi per la prima infanzia, attualmente molto scarsi nel nostro Paese, dove la cura dei bambini è delegata alle mamme non lavoratrici e ai nonni (gratis, se ci sono). La combinazione di asili nido e detrazioni fiscali porterà ad un vero cambio di marcia quando la famiglia non dovrà confrontare i costi della cura con il potenziale guadagno del secondo percettore, tipicamente la donna. In questo contesto sarà importante anche capire se la detrazione fiscale corrisponde ad una spesa di cura effettivamente sostenuta e considerare non solo il comportamento delle donne, ma anche delle imprese, perché per aumentare il tasso di occupazione femminile occorre incentivare anche la domanda. Infine, e questa è forse la misura più innovativa, resta sul tavolo della discussione anche lo smart-working, una nuova organizzazione del lavoro basata sulla flessibilità di orari (e di sede) in cui quello che conta sono gli obiettivi raggiunti dal singolo lavoratore. Grazie alla tecnologia, questo strumento può comportare una rivoluzione culturale nella concezione del lavoro. Si tratta di pratiche nuove per il nostro Paese, i cui segnali preliminari in termini di efficacia e produttività dei lavoratori sono promettenti. Sappiamo ancora poco dell’impatto e supporto all’occupazione femminile. Un disegno di legge a favore delle forme flessibili e semplificate di smart-working è già stato depositato l’anno scorso. Sperimentare, innovare, e al tempo stesso valutare l’efficacia di questo strumento può essere un modo di ripartire. Un’occasione da non perdere.
10 commenti su “DALLE QUOTE ALLO SMART-WORKING ECCO PERCHÉ LA PARITÀ DEI DIRITTI STIMOLA LA CRESCITA ECONOMICA”
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