Fondazione Marisa Bellisario

DONALD TRUMP E IL RISIKO INTERNAZIONALE

di Ornella del Guasto*

Donald Trump dal 20 gennaio 2025 è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Alla cerimonia di investitura ufficiale ha presenziato ritualmente la più illustre nomenclatura del Paese ma per la prima volta, accanto all’immancabile Elon Musk, anche i ceo del massimo potere del pianeta: Tim Cook, Sam Altman, Jeff Bezos, Marc Zuckerberg, Sundar Pichai …. a dimostrare che la politica trumpiana sarà rivolta soprattutto all’economia, alla finanza e alla tecnologia. E il giorno prima, miracolosamente, anche la fragile tregua per Gaza tra minacce bombardamenti è diventata operativa. Nel suo discorso di commiato, Joe Biden aveva annunciato che, grazie a molti mesi di intensa diplomazia da parte di USA, Qatar ed Egitto, era stato raggiunto finalmente tra Hamas e Israele il “cessate il fuoco”. Ma oltre l’indiscusso impegno diplomatico democratico, secondo gli analisti, è stato decisivo l’intervento muscolare di Trump, che ha minacciato Israele in caso di complicazioni di interrompere ogni aiuto militare. Così Netanyahu ha dovuto far buon viso a cattivo gioco rischiando di perdere il sostegno all’interno del suo governo con gli estremisti di destra infuriati che lo accusano di cedimento e di mettere a repentaglio la sicurezza del Paese (alcuni si sono dimessi dalla coalizione di governo). Ma nonostante le violente contestazioni durate fino a poche prima dell’entrata in vigore, l’accordo per la tregua è diventato operativo all’alba del 19 gennaio: prevede 3 fasi durante le quali avverrà a scaglioni lo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, immediati aiuti umanitari a Gaza e se tutto andrà bene infine la ricostruzione. Un arco di tempo in cui tutto potrebbe succedere di positivo e negativo. Intanto i bombardamenti israeliani sono cessati e Hamas come primi ostaggi ha liberato 3 donne in cambio di 90 prigioniere palestinesi e una lunga fila di Tir carichi di aiuti umanitari dall’Egitto sono entrati a Gaza.

Con l’entrata ufficiale in carica di Trump intanto il mondo si interroga anche sulle altre sue pirotecniche minacce anticipate da tempo: Nato, Ucraina, Dazi, blocco dell’immigrazione clandestina, Canale di Panama, Golfo del Messico, cooptazione di Groenlandia e Canada… Anche se nelle discussioni tra pessimisti e ottimisti questi ultimi sottolineano che il neo Presidente Usa sa essere sì un inquietante imbonitore ma anche un abile mediatore capace di adattarsi a utili soluzioni. Tra gli esempi citati, la composizione a più attori trovata per la vicenda dei prigionieri Cecilia Sala e Mohammad Abedamini, tornati nelle rispettive patrie, o la sopravvenuta disponibilità a incontrare Putin per discutere il destino dell’Ucraina o la sua dichiarata intenzione di riportare definitivamente la sicurezza nell’area mediorientale facilitando l’avvicinamento tra Arabia Saudita e Israele. Quest’ultimo tassello è particolarmente importante da realizzare perché nell’attigua Siria la fine imprevista della dinastia sciita degli Assad, unita all’indebolimento di Hezbollah in Libano, sta aprendo a USA, Israele e ai Paesi arabi sunniti un formidabile varco di transito per neutralizzare la minaccia nucleare dell’Iran.

L’innesco di questa ipotesi di rapida mutazione geopolitica dipende dall’evento di portata storica che si è verificato a dicembre 2024: la conquista della Siria da parte di una coalizione radicale sunnita Hayat Tahrir al-Sham (HTS), guidata da Abu Mohammad al Jolani che in soli dodici giorni ha provocato la caduta del feroce regime che dominava il Paese da oltre 50 anni e costretto alla fuga in Russia il presidente Bashar Assad. Il cambiamento infatti ridisegna l’intero il quadro geopolitico mondiale dato che in poche settimane il Paese è scivolato a precipizio dalla brutalità di uno dei regimi più sanguinari nella storia del Medio Oriente verso una sorta di Califfato sunnita, una svolta improvvisa che potrebbe rovesciare la situazione. Infatti se Trump riuscirà a realizzare la ripresa dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele non solo riuscirà a distruggere l’asse sciita pilotato da Teheran ma anche Netanyahu centrerebbe alcuni obiettivi: avrebbe decapitato Hezbollah in Libano, accelerato la caduta degli Assad in Siria e cancellato la strada Baghdad–Beirut che alimentava la resistenza anti israeliana, indebolendo come mai prima l’influenza regionale iraniana. Ma anche Trump ha il suo obiettivo strategico: raggiungere l’alleanza con il principe ereditario saudita, Mohammed Bin Salman che ha posto solo una condizione alla firma degli “Accordi di Abramo” per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Israele: il via libera alla nascita di uno stato palestinese (magari facendo infuriare Tel Aviv). Netanyahu però non intende fermarsi: lasciata in sospeso la quesitone Gaza, ha aperto un altro fronte iniziando a bombardare la Cisgiordania con l’operazione “muro di ferro” per difendere i coloni ebrei dai terroristi palestinesi. Per l’Arabia Saudita la normalizzazione in Medio Oriente è inoltre importante perché limiterebbe spazi economici regionali agli Emirati Arabi Uniti, alleati ma competitori e poi Riyadh – sottolinea il sito Affari Internazionali- sta discutendo con Washington il progetto di un loro programma nucleare per uso civile e la diversificazione economica post-oil di Vision 2030 che ha bisogno di stabilità e interdipendenza economica.

Chi è Al Jolani il nuovo leader della Siria? La sua biografia informa che ha 42 anni e che il suo vero nome è Ahmad al Sharaa, oggi però meglio noto col suo nome di guerriero Abu Mohammad al-Jolani, con un inquietante trascorso giovanile di militante di Al Qaeda e di Isis, trascorsi quindi che hanno sollevato inquietudine in Occidente. Tuttavia a sorpresa entrato a Damasco si è pubblicamente espresso in un primo discorso conciliante che è sembrato condensare il passaggio dal radicalismo alla politica del dialogo.

Adesso però la comunità internazionale smarrita si domanda se dietro il tono pacato sia possibile fidarsi di lui perché, nonostante la narrativa di moderazione, il suo passato legame con Al-Qaeda lo potrebbe spingere a sostenere gruppi estremisti e a trascinare il Paese in una deriva afghana. La fine degli Assad infatti rappresenta un cambiamento epocale destinato a riscrivere le influenze di tutto il Medio Oriente e ad avere un peso in una vasta area del mondo, dove gli eventi non sono mai isolati, ma invischiati in un complesso mosaico geopolitico. Il crollo del regime di Assad rappresenta perciò un punto di svolta non solo per la Siria, ma in generale per gli affari internazionali dato che la redistribuzione degli interessi coinvolge in prima linea Iran, Russia e Turchia, ma chiaramente anche l’Ue, gli altri attori regionali, nonché Usa e Cina. Proprio a causa delle possibili ricadute internazionali, la qualità della transizione politica nel Paese è essenziale per preservare la sicurezza regionale.

Fino ad oggi va dato atto che il leader in pectore Mohammad al-Jolani continua a esprimersi in toni concilianti. Si è presentato all’incontro a con i vari ministri degli Esteri a Damasco in abiti civili e, in tutte le sue dichiarazioni, le espressioni più ripetute sono state, “pace sociale”, “dialogo con le diverse comunità”, “rispetto per tutti i siriani” perché la Siria è “sfinita” dalla guerra” e non è più una minaccia per i Paesi vicini o per l’Occidente” aggiungendo che le fazioni saranno “sciolte” e i loro combattenti integrati nell’esercito del nuovo governo. Nessuna minaccia nemmeno a Israele, che pure ha approfittato del caos per attaccare basi e depositi militari nemici, oltre a occupare terre siriane tra il Golan e il monte Hermon.

In cambio della mano tesa, però, al-Jolani oltre la normalizzazione dei rapporti diplomatici chiede l’immediata revoca delle sanzioni internazionali imposte a Damasco “perché erano fatte per colpire il vecchio regime. La vittima e il carnefice non dovrebbero ricevere lo stesso trattamento”. Infatti il problema più grave che attanaglia il Paese ereditato dagli Assad è la spaventosa crisi economica, che a sua volta ha portato alla piaga della povertà diffusa tra i civili e alla totale paralisi delle strutture pubbliche.

Le prime risposte ci sono già e buona parte della comunità internazionale sembra propensa a dargli apertura di credito. L’Onu ha ammesso che la situazione è drammatica e che è pronto a fornire tutti gli aiuti per l’assistenza così come il G7 è disponibile a offrire il pieno sostegno al processo di ricostruzione, a patto però che rispetti alcuni principi cardin: dalla distruzione degli arsenali delle armi chimiche all’inclusione delle donne nel ripristino di uno Stato di diritto. Al Jolani ha già ricevuto  la delegazione dell’Italia, della Giordania, del Qatar, della Turchia che rammenta di aver ospitato la maggiore massa rifugiati siriani perseguitati dagli Assad e vuole adesso intensificare i contatti con Damasco. Francia, Germania e Gran Bretagna hanno annunciato di voler riallacciare le relazioni e l’Italia che intende essere parte attiva nella stabilizzazione della Siria a patto che il nuovo ordinamento sia rispettoso delle minoranze e in particolare di quella cristiana. Intanto gli USA hanno cancellato la taglia da 10 milioni di dollari che 11 anni fa avevano imposto sulla testa di al Jolani accusato di “terrorismo” e persino la Russia, nonostante offra rifugio a Bashar Assad, ha già avviato “contatti” con il nuovo esecutivo siriano. In questi giorni un fiume ininterrotto di rifugiati siriani all’estero per sottrarsi alle persecuzioni degli Assad sta tornando in patria (si stima siano tra gli 8 e 13 milioni) e adesso la preoccupazione di al Jolani è di reinserirli pacificamente nel tessuto di un Paese che ribolle di interessi, etnie e fazioni divergenti che dovranno essere forzatamente composti. Una mossa coraggiosa, visto che molti di loro potrebbero non condividere la cultura islamica imperante tra i ranghi dello Hts. Per questo al Jolani ha promesso 3 mesi di tregua mentre si è cominciato a lavorare all’organizzazione di un censimento generale per effettuare le elezioni e poi di una Conferenza nazionale che consenta di elaborare la nuova Costituzione. Per ora, a parte alcune vendette private, la transizione in Siria appare tranquilla. Ma siamo ancora agli esordi anche perché tra i miliziani armati le fazioni e le etnie sono tante e diverse: gli uiguri che sognano di fondare una repubblica islamica separata in Cina, oltre a uzbeki, ceceni, turkmeni, turchi… Un’impresa gigantesca poterli amalgamare tutti.

*Political and socio-economic analyst

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2 commenti su “DONALD TRUMP E IL RISIKO INTERNAZIONALE”

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