Non è un 8 marzo come tanti. Fino a poche settimane fa, ci preparavamo a festeggiare la lenta uscita dalla pandemia e a rivendicare con forza un nuovo protagonismo femminile, in economia e politica. Poi tutto è cambiato e la guerra ha fatto irruzione in un’Europa incredula. Abbiamo trascorso due anni a combattere contro un nemico invisibile e, mentre stavamo risvegliandoci da un lungo sonno, ci troviamo dentro un nuovo, se possibile ancor più terribile incubo. Senza le armi psicologiche per affrontarlo, tanto è lontano da ogni nostro immaginario.

Kiev non è Kabul, in quelle strade riconosciamo i segni del nostro vivere, i simboli della cultura occidentale. E vediamo donne, figlie, sorelle, mogli, madri così simili a noi. Fino a poche settimane fa avevano i nostri stessi problemi, oggi fuggono dalle loro case, lasciandosi tutto dietro. E quelle che scelgono di rimanere, si arruolano nella resistenza e si fanno fotografare con i fucili in braccio, simbolo di un popolo che non è disposto a cedere all’invasore e che il 21 aprile del 2019 ha eletto con il 70% dei voti il suo Presidente. «L’Ucraina è un Paese pacifico. Siamo contro la guerra e non abbiamo attaccato per primi. Ma non ci arrenderemo. Che il mondo intero guardi: lottiamo per la pace anche nei vostri Paesi». Così la first lady – bersaglio n.2 dell’esercito nemico – racconta con fierezza che non cederà alle lacrime e giorno dopo giorno, assedio dopo assedio, incoraggia le sue donne a resistere.

Superata la linea di violenza scatenata dal dittatore Putin, la protesta contro il regime è di nuovo femminile. Le donne e i bambini arrestati, l’attivista ottantenne sopravvissuta all’assedio di Leningrado – portata via dai soldati mentre reggeva il cartello “Soldato, lascia cadere la tua arma e sarai un vero eroe” – diventano l’emblema di un popolo che non cede alla violenza del “padrone” e si ostina a protestare e dissentire. Quasi 13mila arresti in 121 città, da Pietroburgo a Novosibirsk.

Ancora, dall’altra parte del mondo, in piazza ci sono sempre donne: le afghane che da mesi continuano a protestare contro il regime talebano e a rischiare la vita per riconquistare la libertà di uscire, di studiare, di esistere come individui.

E allora in questo 8 marzo tanto diverso, io provo a leggere il segno di tempi che segnano uno scarto epocale rispetto al passato. Perché la guerra così come l’abbiamo letta sui libri di storia era fatta da uomini. Pensata, mossa, guidata e combattuta da generali, strateghi, politici e dittatori, cui abbiamo intitolato statue, vie e piazze. Alle donne spettava di custodire il lutto, curare le ferite, arare i campi, lavorare nelle fabbriche mentre mariti, fratelli e figli erano al fronte. Di loro non è restata traccia. Oggi, invece, le vediamo e ascoltiamo. I nuovi megafoni della storia, i simboli di un volere che non si piega all’usurpazione e alle logiche della conquista sono donne. Senza voce ufficiale, senza il potere di decidere, sono le prime ad aver fatto una scelta di campo, senza esitazioni. Nella frattura immensa tra regimi autoritari e democrazie liberali, tra uso della forza militare e propagandistica e libertà, si sono schierate alla luce del sole, rischiando tutto.

Dedico a loro questo 8 marzo. A tutte le donne che con la loro vita, le loro azioni, il loro coraggio, la loro forza dimostrano che c’è un’altra via. Quella della libertà, della giustizia, della ragione. Alle donne che lottano, resistono, protestano, mettono al mondo figli, accolgono e tendono la mano all’umanità offesa dalla violenza. Alle donne che parlano un altro linguaggio e che celebrano la vita, ovunque e comunque. Alle donne che non sono più disposte a subire una storia scritta da uomini ma vogliono scriverla, a modo loro. Senza odio ma con amore per un mondo più giusto.

Buon 8 marzo a tutte.

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