di Anna Rita Germani*
In un momento storico in cui le scelte economiche modellano la vita delle persone con una rapidità e intensità senza precedenti, sorprende quanto poco la ricerca scientifica economica riesca oggi a rispondere alle domande più urgenti del dibattito pubblico e politico. Non perché manchino i talenti, le risorse o gli strumenti, ma perché il sistema della produzione scientifica accademica sembra talvolta disconnesso dai problemi reali. Prendiamo un esempio: il nuovo indicatore di spesa pubblica strutturale previsto dalle regole fiscali europee, pensato per garantire una convergenza sostenibile del rapporto debito/PIL. Ebben, a oltre un anno dalle prime bozze di riforma del Patto di Stabilità è quasi impossibile trovare articoli scientifici che discutano nel merito come dovrebbe essere costruito questo indicatore e quali distorsioni possa generare, o che analizzino comparativamente gli effetti tra Paesi con diverse strutture fiscali. Manca insomma una riflessione scientifica pubblica su uno strumento che influenzerà le leggi di bilancio dei prossimi decenni.
Ancora più sorprendente è il silenzio, con rare eccezioni, relativamente alla storica incoerenza tra il vincolo del 3% di deficit/PIL e quello del 60% di debito/PIL, due numeri emblematici introdotti con il Trattato di Maastricht senza che vi fossero solide fondamenta teoriche condivise. Nonostante siano passati trent’anni, pochi accademici economisti (i.e., Buiter, Corsetti, Roubini, 1993; Buiter, 2006) hanno analizzato in modo sistematico la contraddizione strutturale che ostacola, per molti Stati, la compatibilità tra i due vincoli di riferimento. Eppure, la discussione scientifica su come superarli è rimasta sostanzialmente lettera morta.
Anche dopo la recente tensione inflazionistica, uno dei temi più importanti per l’economia italiana, l’effetto del cosiddetto fiscal drag, è rimasto fuori dai radar della ricerca economica. Eppure, secondo alcune stime, il drenaggio fiscale avrebbe sottratto, tra il 2022 e il 2024, circa 25 miliardi di euro a lavoratori dipendenti e pensionati, a causa della mancata indicizzazione delle aliquote IRPEF all’inflazione. Nessuna rivista economica mainstream ha però affrontato in modo sistematico il tema, né tantomeno discusso soluzioni come la rivalutazione automatica delle aliquote IRPEF.
Ci si può allora chiedere: perché questo silenzio? Forse il linguaggio della ricerca economica è diventato troppo tecnico per essere accessibile? O forse la struttura degli incentivi accademici spinge a produrre lavori metodologicamente impeccabili ma scollegati dalla realtà?
In parte, la risposta sta proprio qui. Le pubblicazioni accademiche nell’ambito delle discipline economiche è oggi dominata da un paradigma iper-tecnico, fortemente influenzato da metodi quantitativi e da criteri editoriali che privilegiano la novità metodologica rispetto alla rilevanza sociale. Come osserva il premio Nobel Paul Romer, “troppo spesso la pubblicazione accademica premia l’eleganza formale più della comprensibilità o dell’utilità” (The Trouble with Macroeconomics, 2016). Il rischio è, pertanto, quello di produrre una letteratura che parla solo a se stessa.
Inoltre, i canali di comunicazione della ricerca economica sono raramente progettati per raggiungere il grande pubblico o i decisori politici. I working paper delle università e dei think tank restano confinati a un pubblico specialistico. Le riviste accademiche sono spesso a pagamento e richiedono anni per pubblicare i lavori scientifici. E nel frattempo, il dibattito corre su altri canali: talk show, social media, podcast.
Ma proprio qui, forse, si apre una sfida e una opportunità. Se è vero che oggi si legge meno, è anche vero che si ascolta e si guarda molto di più. Il boom dei contenuti economici divulgativi su YouTube, Instagram e TikTok dimostra che esiste un pubblico curioso e attento, disposto a seguire ragionamenti complessi se ben spiegati. Servono però figure nuove: esperti in grado di coniugare rigore scientifico e capacità comunicativa, magari affiancati da professionisti della comunicazione digitale. Se la scienza economica non si riappropria del suo ruolo pubblico, lo spazio sarà occupato da narrazioni semplificate, da fake news o da proposte populiste. Per questo, oggi più che mai, serve una nuova alleanza tra economisti accademici, giornalisti e comunicatori digitali. La buona economia ha bisogno di essere capita. E raccontata bene.
*Docente di Economia Politica, Sapienza Università di Roma
Analisi lucida e condivisibile. Il vero nodo sembra proprio la distanza tra la produzione accademica e le esigenze del dibattito pubblico.
小币圈“小币圈”是区块链技术的学习园地、价值项目的研究室和理性投资者的交流净土。我们不是喊单群,不是新闻搬运工,更不是赌徒的乐园。