Fondazione Marisa Bellisario

VIETARE LO SMARTPHONE SERVE MA NON BASTA. UN APPELLO AGLI ADULTI

Una società che non presta attenzione e cura ai propri giovani è una società senza futuro. Per questo, il tema del disagio giovanile – nelle innumerevoli forme in cui si manifesta – è al centro del nostro interesse sempre. Tutte le ultime edizioni del nostro Seminario Donna Economia & Potere hanno avuto un tavolo a loro dedicato, quasi un osservatorio permanente. Da tempo, poi, pensavo a una ricerca sull’uso degli smartphone e Alessandra Ghisleri ha accolto con entusiasmo il mio spunto. L’idea di usare come campione anche le associate della Fondazione Marisa Bellisario nasce dalla volontà di capire cosa ne pensano donne, madri, professioniste che condividono la nostra prospettiva sul futuro. Non mi sbagliavo perché le loro opinioni risultano polarizzate rispetto al campione generico, soprattutto su alcuni interrogativi. Più dell’89% (vs 80%) delle nostre donne pensa che l’uso dello smartphone per i ragazzi con meno di 14 sia eccessivo; l’83% – contro il 50.9% – è preoccupata per la riduzione di socialità ed esperienze reali; il 39.1% – contro il 21.3% – ritiene necessaria una legge per impedirne l’uso prima dei 14 anni. Le nostre associate sono più propense a “delegare” l’insegnamento dell’uso consapevole della tecnologia alla scuola (63.1% contro il 44.6%) e ad alzare l’età di uso in modo autonomo e senza restrizioni oltre i 14 anni (88% vs 75%). Una percentuale schiacciante (93,1% vs 82,6%) dà la responsabilità del disagio giovanile ai social network. E, risposta che mi ha fatto riflettere molto, il 68.1% di loro (51.4% il resto del campione) si sente “dipendente” anche solo in parte, dallo smartphone

Siamo più attente, più preoccupate, invochiamo di più “un intervento dall’alto”, forse abbiamo più fiducia nella forza delle leggi e siamo anche più oneste nell’ammettere quella che è una “debolezza” e responsabilità insieme. Perché, l’esperienza della legge sulle quote – e perdonate il paragone ma vedrete quanto è calzante – così come quella di una legislazione così stringente sui femminicidi ci dimostrano che le norme sono indispensabili ma non bastano. La coercizione è solo un primo passo, poi serve un cambiamento culturale profondo. Che, in tema giovani, si traduce in una presa di coscienza collettiva che vada oltre il pubblico dibattito ed entri nelle nostre case, si innesti nelle quotidiane abitudini, diventi esempio.

Ci torno poi perché prima voglio parlare della stretta istituzionale invocata dalle nostre associate e che condivido in toto. Qualche giorno fa, in una circolare ministeriale Valditara estende alle scuole superiori di secondo grado il divieto di uso degli smartphone già fissato lo scorso anno per le elementari e medie. Un divieto che si basa, si legge nella circolare, sugli effetti negativi dei dispositivi sull’apprendimento e il benessere degli adolescenti. Sono citati uno studio dell’Ocse – più di sei studenti su dieci (65%) ammette di non seguire le lezioni perché impegnato sul proprio telefono cellulare – , un rapporto dell’Oms sulla diffusione di fenomeni di dipendenza e una ricerca dell’Istituto superiore di sanità sull’utilizzo problematico dei telefonini da parte di un ragazzo su quattro, con ripercussioni su sonno, concentrazione e relazioni sociali. Lo scorso maggio nel corso della riunione del Consiglio europeo, era stato lo stesso Valditara a proporre una raccomandazione europea in questa direzione, sottoscritta finora da dieci Paesi, tra cui la Francia, dove lo stesso Macron sta spingendo l’acceleratore in questa direzione. Mentre in giro per il mondo sembrano moltiplicarsi esperimenti magari piccoli e isolati ma significativi. A Saint Albans, cittadina a 40 chilometri dal centro di Londra, i dirigenti scolastici hanno mandato ai genitori una lettera congiunta chiedendo di evitare di dare lo smartphone ai propri figli fino ai 14 anni. Qualche mugugno e dissenso ma dopo un anno, il numero degli alunni del sesto anno delle primarie in possesso di un cellulare è passato dal 75% al 12% mentre nel quinto anno dal 30% al 4,8%.

Tornando in Italia, alle critiche già mosse in passato sull’impossibilità di bandire la tecnologia dall’educazione dei nativi digitali, la risposta la dà la stessa circolare: le scuole, si legge, «dovranno rafforzare l’educazione all’uso responsabile delle tecnologie digitali», soprattutto per quanto riguarda l’intelligenza artificiale. Governare la tecnologia e non esserne fagocitati.

Le reazioni dicotomiche anche tra insegnanti e psicologi danno una misura della complessità del tema. Da una parte c’è chi si è chiesto se il proibizionismo abbia una reale efficacia o al contrario possa sortire l’effetto opposto, con ragazzi che all’uscita delle scuole si riappropriamo delle proprie appendici tecnologiche e ne fanno un uso smodato per il resto della giornata. Dall’altra parte, si sostiene che il divieto a scuola serve a rendere il cervello dello studente disponibile a stare immerso nella proposta di apprendimento senza la continua interferenza di notifiche di ogni tipo, con un guadagno anche in termini di socialità e interazione, di creatività nel gestire lo svago, di inclusione.

Io sto con loro, con quella parte degli esperti che guarda alle immense opportunità della tecnologia, Intelligenza Artificiale compresa, ma al contempo ritiene che una regolamentazione, soprattutto a difesa delle fasce più deboli della popolazione – nel senso di meno formate, mature, emotivamente e psicologicamente fragili –non sia sinonimo di un conservatorismo fuori dal tempo. Non è il progresso a tutti i costi, soprattutto quando il prezzo lo paga quella parte della nostra società che avrà la responsabilità di guidarlo in un prossimo futuro. Parlare dei rischi di tutto ciò che le nuove tecnologie portano in dote, e cercare di arginarli, è solo buon senso. Chiudere gli occhi di fronte agli effetti devastanti che un uso eccessivo e distorto di social e smartphone stanno provocando, derubricarli come “effetti collaterali” di un’inevitabile rivoluzione è da irresponsabili. Un gigantesco errore che pagheremmo carissimo.

Dopodiché, e torno al quel 68% delle nostre associate che si sente dipendente dallo smartphone, ci vuole l’onestà di dire che parte del problema siamo noi: madri, padri e adulti che spesso abdichiamo alla nostra funzione educativa. A chi non è capitato di vedere al ristorante un bimbo piccolo imbambolato davanti a un tablet o telefonino – baby sitter 2.0 – mentre i genitori si “godono” la cena? Quanti non hanno ceduto dopo mesi di insistenze di un figlio di 12 anni che chiede il telefonino per non essere da meno dei coetanei? E quanti di noi, quando siamo con i nostri figli o nipoti, mettiamo il telefono da parte senza controllare l’ennesima notifica? Quanti postano continuamente sui social, togliendo spazio e tempo all’interazione con chi hanno accanto?

Le istituzioni, la scuola sono i più preziosi alleati di una battaglia per far sì che la tecnologia resti strumento preziosissimo e non surrogato del reale. Ma poi spetta a noi già adulti, e si presume responsabili, mostrare loro la via. Far sì che i nostri ragazzi rimettano i piedi sulla terra, tra i coetanei, riassaporando il gusto di una conversazione guardandosi negli occhi; che tornino ad affrontare la vita vera, con tutti i suoi difetti e storture, delusioni e cadute che faranno di loro adulti responsabili, più o meno felici.

Vi lascio con uno spunto, una riflessione. Alice Evans, ricercatrice del King’s College di Londra, ha messo in correlazione la contrazione della natalità e l’aumento dei single. Due trend che accomunano contesti spesso agli antipodi geografici, sociali e culturali. Alla domanda perché preferiamo star più da soli, lei ha dato un nome: gli smartphone, i social, le connessioni digitali. Mentre un tempo, ai miei tempi, per svagarsi bisognava uscire, andare a un concerto o al cinema, incontrare gli amici, oggi possiamo “ritirarci” senza annoiarci, la tecnologia è diventata più forte e compensatrice di qualsiasi relazione d’amore e d’amicizia. Lo facciamo noi e i nostri figli ci guardano. E ci imitano.

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