Fondazione Marisa Bellisario

USA: IL BRACCIO DI FERRO SUL FUTURO DELLA CULTURA

di Rita Lofano*

Da un lato c’è Donald Trump, eterno outsider che ha fatto dell’anti establishment il marchio di fabbrica del movimento Maga; sull’altra sponda c’è Harvard, culla del pensiero liberale progressista, accusata dal presidente degli Stati Uniti (e dai suoi sostenitori) di essere non solo parte dell’élite, ma una roccaforte dell’“anti-America”. È molto più di uno scontro tra il capo della Casa Bianca e una delle università più prestigiose al mondo, è un braccio di ferro sul futuro della cultura pubblica, su chi ha il diritto di definire ciò che è vero, giusto e rappresentativo. Sono due Americhe che si affrontano sul terreno della legittimità culturale.

Harvard per Trump è il simbolo di un sistema che milioni di americani percepiscono come distante, autoreferenziale, intoccabile. È sul “flyover country”, quello spazio di mezzo (tra le due coste) che Trump ha costruito il suo consenso, ed è a quell’America silenziosa, che non fa notizia (ma determina le elezioni) che lui parla: il profondo Texas rurale, l’Iowa, l’Ohio, il Missouri, l’Indiana, l’Arkansas, il Kansas, le cittadine della Pennsylvania, le pianure del Montana. Chi racconta l’America lo fa spesso senza aver mai visto gli allevamenti di “crawfish” (gamberi d’acqua dolce) della Louisiana, senza aver mai camminato tra le silenziose stradine dell’Illinois, mangiato nei diner dell’Oklahoma, visitato le chiese evangeliche del Mississippi, le coltivazioni di mais del Nebraska. In questa immensa parte dell’America fatta di piccole comunità conservatrici, la visione politica non si misura solo con l’inflazione, ma soprattutto con l’identità.

Trump e i suoi alleati accusano Harvard e altre università dell’Ivy League di promuovere un ambiente di “cultura woke”, dove i punti di vista conservatori sono soffocati. Reclama una “diversity” di opinioni, tra docenti e studenti. La guerra in corso tra Israele e Hamas ha intensificato l’attrito. A seguito delle proteste filo-palestinesi nel campus, l’amministrazione ha contestato a Harvard di non aver affrontato adeguatamente l’antisemitismo e protetto gli studenti ebrei, violando potenzialmente il Titolo VI del Civil Rights Act. Da qui il taglio di miliardi di dollari in sovvenzioni e contratti di ricerca federali. Ma la mossa più controversa (poi fermata dai giudici) è sicuramente il tentativo di revocare la possibilità per l’ateneo di Cambridge di immatricolare studenti stranieri, un colpo al motore pulsante della vitalità a stelle e strisce, crocevia di talenti globali, laboratorio di idee e moltiplicatore di opportunità.

Nel cuore di questa guerra culturale, spicca il silenzio dell’opposizione democratica. Frammentati, impauriti, senza una visione chiara, paralizzati dalla paura di sbagliare o di sembrare “troppo elitari”, i dem hanno lasciato un vuoto. Chi lo ha riempito? La più antica torre d’avorio d’America. L’università che ha formato otto presidenti (da John Adams a Barack Obama) non si limita più a osservare. È scesa in campo. E non da sola: con lei, un intero sistema accademico che, rompendo il patto storico di neutralità, ha deciso di “sporcarsi le mani”. Non si torna indietro: la frattura tra accademia e politica è ormai superata, e quel confine tra sapere e potere, un tempo gelosamente custodito, è stato attraversato. La partita si gioca ora nella dimensione del tempo lungo, quello dei cicli presidenziali e delle idee. È la politica, bellezza, con le sue sfide, le sue lacerazioni, ma anche la sua ineludibile necessità di scegliere. E Harvard ha scelto.

*Direttore AGI Agenzia Giornalistica Italia

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