di Maurizio Sacconi*
La ventiquattresima edizione di “Donna Economia & Potere”, promossa dalla Fondazione Bellisario, ha dedicato opportunamente uno dei tavoli di discussione alla rivoluzione avviatasi nei modi di produrre e di lavorare.
Se è evidente il miglioramento continuo del mercato del lavoro nel periodo post pandemico, rimane tuttavia ancora significativamente esclusa la componente femminile. In Italia il differenziale occupazionale di genere è pari al 19,5%. In Spagna è del 10,3%, mentre in Germania e Francia è rispettivamente del 7,7% e del 5,5%. Se poi si considerano le donne “inattive”, ovvero quelle che non lavorano e non chiedono di lavorare, sono circa otto milioni a fronte di dieci milioni di occupate. Nel momento in cui si registra nel mercato del lavoro una crisi dal lato della offerta per ragioni demografiche e educative, la componente femminile rappresenta un giacimento da valorizzare. Varie ricerche hanno peraltro stimato il grande costo della sottoutilizzazione delle donne e il potenziale di crescita economica (e sociale) conseguente al loro maggiore impiego.
Le donne nel mondo del lavoro sono costrette dai carichi familiari a lavorare meno ore, in ambiti meno retribuiti, con mansioni inferiori rispetto agli uomini. La società è peraltro interessata a favorire la libera scelta della maternità e per questa ragione il “tavolo” si è dedicato a risolvere questa contraddizione determinata non solo dalla carenza dei servizi di cura ma anche da un contesto culturale ostile o indifferente.
Non a caso, è ancora alto il numero delle donne che escono definitivamente dal mondo del lavoro dopo l’arrivo del primo figlio. Secondo i dati forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro, le donne che si sono licenziate in un anno sono quasi trentamila. Solo un sesto di queste transita a un’altra occupazione mentre la gran parte si trova costretta a scegliere l’impegno familiare. Paradossalmente, il gender wage gap italiano è di 3,29 punti percentuali contro una media OCSE dell’11,43%. La Germania presenta un divario salariale di ben 14,3 punti, la Francia si attesta all’11,56%, la Spagna del 6,72%, quasi il doppio rispetto all’Italia. L’Italia è “migliore” degli stessi Paesi nordici. Molti obiettano che sarebbe tuttavia l’esito non di buone relazioni di lavoro ma, al contrario, di uno schiacciamento generalizzato dei salari mediani in un mercato del lavoro poco dinamico.
Le considerazioni svolte conducono innanzitutto all’obiettivo generale di una società attiva, già indicato nel Libro Bianco di Marco Biagi, con più elevati livelli di natalità, indicatori di conoscenze e tassi di partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto delle donne e dei giovani. Si tratta di ripristinare l’ascensore sociale che l’Italia ha conosciuto nei decenni migliori del dopoguerra quando vi era fiducia nel futuro. La natalità risulta favorita dalla realizzazione delle donne attraverso il lavoro e questa, a sua volta, richiede, attività precoci di orientamento, scelte educative di qualità, un mercato del lavoro animato da una pluralità di intermediari in concorrenza tra loro, imprese consapevoli del valore sociale e professionale della maternità, un contesto di diffusi servizi di cura.
Il governo ha in parte avviato iniziative rivolte a questi scopi, destinando risorse significative a sostegno della natalità e delle famiglie numerose nonostante i vincoli di bilancio. Così come ha promosso un codice di autodisciplina che le imprese “responsabili” dovrebbero liberamente adottare non solo per garantire l’accesso ai servizi e la possibilità di conciliare tempi di lavoro e di famiglia ma anche per sostenere il percorso di carriera delle madri. L’Italia è il Paese col più lungo congedo di maternità d’Europa, ben 150 giorni contro i 112 giorni della Francia e della Spagna, o i 90 della Germania. Ed è uno tra i Paesi che remunera meglio il congedo, con l’80% della retribuzione pagata. Ma ciò non deve significare la separazione dall’impresa e l’innesco di una spirale di reciproca sfiducia. Occorre il concorso di intense e personalizzate relazioni di lavoro nella dimensione aziendale, oltre la tradizionale centralizzazione contrattuale. Può soccorrere la progressiva transizione della prestazione lavorativa dal parametro dell’orario a quello degli obiettivi da conseguire, flessibilizzando il tempo e il luogo. E in questa dimensione la retribuzione del lavoro può diventare dinamica collegandosi ai risultati e agli incrementi di professionalità. Con la fine delle produzioni seriali e dei lavori ripetitivi i lavoratori hanno riacquistato un volto. Il moderno modo di produrre indotto dalle macchine intelligenti richiede persone integralmente formate, capaci di pensiero critico, di relazionalità, di iniziativa. In questo contesto le donne hanno certamente maggiori possibilità di esprimere il loro grande potenziale.
*Presidente Associazione Amici di Marco Biagi