Fondazione Marisa Bellisario

PARTO CESAREO: IL DIRITTO DI SCEGLIERE

di Giulia Catricalà*

Fra appigli deontologici e quadri normativi lacunosi in Italia non sempre è garantito il diritto al cesareo elettivo.

 La morte di Andreea Antochi, la trentenne deceduta al San Matteo di Pavia durante il parto insieme al figlio Sasha Andrei, impone un’attenta riflessione sul diritto al cesareo e sulle modalità in cui il principio di autodeterminazione rispetto alla propria salute è percepito dai medici e dalle strutture sanitarie. Come denunciato dal marito e dalle amiche di Andreea, la donna si era recata il 12 dicembre, cinque giorni prima della sua morte, al Pronto soccorso ostetrico del San Matteo accusando forti malori e chiedendo di essere sottoposta al taglio cesareo. I medici della struttura, stando alle parole delle conoscenti di Andreea, “non hanno creduto al suo dolore”, e avrebbero deciso di ricoverarla come da programma, il 15 dicembre. Andrea Antochi e Sasha Andrei sono morti nella notte tra il 16 e il 17, per gravi complicanze dovute probabilmente a un’embolia della placenta.  Mentre la procura di Pavia ha aperto un’indagine per omicidio colposo, i parenti di Andreea si chiedono come sarebbero andate le cose se la donna fosse stata ascoltata dai sanitari e sottoposta all’intervento chirurgico.

Secondo la legge italiana a ogni donna è garantito il diritto di scegliere fra parto vaginale e cesareo, ma il professionista sanitario, in assenza di una specifica indicazione clinica, può rifiutare un cesareo programmato.

In linea generale l’Organizzazione Mondiale della Sanità tende a sconsigliare il cesareo su richiesta materna (TCRM), perché, essendo un intervento chirurgico, comporta più rischi del parto naturale. Premesso che nel caso di Andreea i malori accusati potrebbero essere considerati una chiara indicazione a procedere all’intervento, molte donne a cui è stato negato il diritto di scegliere ritengono di aver subito violenza ostetrica.

Il perno della questione legata al cesareo elettivo si riduce a un solo quesito: i rischi legati all’intervento chirurgico giustificano una compressione della volontà materna e dei sui diritti?

I motivi per cui le donne scelgono di sottoporsi al TC sono numerosi, uno di questi è la tocofobia: un disturbo psicologico che consiste nella paura estrema del parto.

La tocofobia può derivare da esperienze traumatiche come abusi sessuali, complicanze incorse durante una precedente gravidanza o maltrattamenti medici. A spaventare molte donne è anche la possibilità di essere sottoposte a un’episotomia, una pratica diffusa che consiste nell’incisione della vagina per permettere la fuoriuscita del neonato.

La tendenza a negare il cesareo è un lascito delle strutture patriarcali e di un approccio medico alla donna che non tiene conto del suo benessere psicologico e della sua qualità di vita, e che focalizza il momento del parto come fenomeno a sé stante completamente disgiunto dalla psiche e dal corpo della partoriente. Nel 2021 il Regno Unito ha pubblicato nuove linee guida per cui, se il medico si rifiuta di eseguire un TCRM, la donna deve essere indirizzata presso un altro professionista disposto a farlo. L’Italia, invece, si limita a garantire la seconda opinione, ma non la certezza dell’intervento. Come accennato in precedenza le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità considerano il taglio cesareo elettivo contrario alla buona medical practice, per cui non è configurato alcun obbligo professionale da parte del ginecologo di approvare l’intervento. La tragica morte di Andreea Antochi e di suo figlio fa emergere l’urgenza per l’Italia di colmare il vuoto normativo sul taglio cesareo elettivo e di sensibilizzare la classe medica sulla necessità di un maggiore dialogo tra paziente e professionista sanitario, affinché ogni donna sia adeguatamente informata riguardo i rischi del parto cesareo e lasciata libera di decidere.

*Giornalista

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