«In America sicuro avrebbero fatto un film su quel mio processo… », dice Goliarda Sapienza in un’intervista Rai del 1994 riferendosi alla vicenda che solo oggi Mario Martone ha trasformato in film. “Fuori”, appena presentato al Festival di Cannes, racconta uno dei tanti volti di una donna carismatica e generosa, che ebbi la fortuna di conoscere e aiutare in uno dei momenti più bui della sua rocambolesca vita. Quando venne pubblicato “L’Università di Rebibbia” nel 1983, nessuno sembrava o voleva accorgersi di quello che Goliarda aveva fatto e scritto. Venne da me in cerca di aiuto e, sfidando tutto e tutti – un’attitudine che ci unì sin da subito – con l’associazione Buongiorno Primavera organizzammo insieme ad Adele Faccio e la scrittrice milanese Armanda Guiducci, nel centro culturale Mondoperaio, l’incontro «La traumatica esperienza carceraria di una donna perbene». Fu un «piccolo caso» di cui parlarono tutti i quotidiani e che risvegliò finalmente l’interesse su una scrittrice che fin a quel momento non aveva mietuto il successo che meritava.
Goliarda varca i cancelli di Rebibbia per aver rubato dei gioielli a un’amica. «L’ho fatto per rabbia – raccontò – per provocazione. Lei era molto ricca, io diventavo sempre più povera. Più diventavo povera più le davo fastidio. Magari mi invitava nei ristoranti più cari, ma mi rifiutava le centomila lire che mi servivano per il mio libro. Le ho rubato i gioielli anche per metterla alla prova, ma ero sicura che mi avrebbe denunciato». Sua madre, da lei definita «intelligente più di un uomo», era finita in carcere per motivi politici e pare sostenesse che se nella vita non si conosceva l’esperienza carceraria o il manicomio non si poteva dire di aver vissuto realmente. E allora lei, intellettuale borghese, commette un reato per poter varcare le porte del carcere e poi raccontarlo senza infingimenti e ipocrisie, «dal di dentro».
«Desideriamo spesso il silenzio – scrive – ma quello della vita è sempre sonoro, anche in campagna, al mare, anche nel chiuso della nostra stanza. Qui dove mi trovo il non rumore è stato ideato per terrorizzare la mente che si sente ricoprire di sabbia come in un sepolcro». In quel diario dal carcere, Goliarda svela sì la disumanità delle condizioni carcerarie, ma allo stesso tempo racconta un’esperienza da cui esce trasfigurata e «vivificata», che le fa scoprire solidarietà e amicizie che la vita le aveva fin a quel momento aveva negato. «Le mie più grandi amiche – racconterà anni dopo a un Enzo Biagi piuttosto perplesso – adesso sono donne che entrano ed escono dal carcere, persone che fuori non sarebbero state nessuno, e che in carcere sono regine». «Un po’ volevo andarci, in carcere. Mi ero troppo imborghesita, infragilita. Troppo lavoro intellettuale, troppo cavilli […] A Rebibbia sono rinata […] per alcuni aspetti ho rivissuto la mia infanzia», scrive.
«Goliarda non esiste. Lei è l’esistenza» era una frase con cui alcuni amici tratteggiavano quella sua capacità e volontà sicura di mettersi in gioco sempre. Una donna autentica, così come ebbi il privilegio di conoscerla e frequentarla. Si era appassionata al nostro progetto e in quegli anni divenne parte attiva di tutte le iniziative di Buongiorno Primavera, con quell’entusiasmo generoso e quel trasporto che cementarono la nostra amicizia. Prima dell’artista, conobbi la donna, che ti spingeva a guardare alle contraddizioni e a non rigettarle ma viverle, attraversarle, dar loro un senso e una missione. Sofferenze, ambiguità, bugie, paure, desideri e delitti, simbolici e reali, era un universo variegato, terribile e affascinante quello di Goliarda, frutto anche di un’esistenza nata complicata.
La madre, Maria Giudice, è una figura di spicco del sindacalismo lombardo – la leonessa del socialismo titola uno dei tanti libri che negli anni le dedicano – la prima donna in Italia a dirigere una Camera di Commercio. Ha quarant’anni e sette figli – avuti more uxorio dall’anarchico Carlo Civardi, morto sul fronte della grande guerra – quando il partito socialista la manda in Sicilia per organizzare la lotta dei braccianti. Lì conosce Giuseppe Sapienza, avvocato tra i principali animatori del socialismo siciliano, anche lui vedovo e con tre figli, e danno vita a una famiglia allargata. Insieme, dirigono il giornale «Unione» e partecipano alle lotte per l’espropriazione delle terre in Sicilia, durante le quali Goliardo, figlio maggiore di Giuseppe, muore, presumibilmente ucciso dalla mafia. Tre anni dopo nasce Goliarda, la cui infanzia sarà segnata dalla morte di altri tre fratelli, dalla crescente sofferenza e instabilità della madre irriducibilmente antifascista e idealista, dalla vitalità del padre, “avvocato del popolo” che non nasconde la passione per altre donne ma anche dall’insorgenza di malattie lunghe e gravi che ne segnano l’adolescenza.
Della sua formazione anarchico-socialista, Iuzza, come la chiamano in famiglia, racconterà che i suoi genitori, oltre a essere comprensibilmente più interessati al bene comune che a crescere una neonata, le avevano tolto Dio – «il che non è poco» – offrendole in cambio la cultura, che «veniva prima del pane», e i loro fortissimi ideali. Viene ritirata dalla scuola pubblica fascista affinché non diventi una «piccola cretina italiana» e la sua educazione viene affidata ai fratelli maggiori e al padre che la coinvolge nella sua passione per il teatro.
Nel 1943, si trasferisce con la madre a Roma per frequentare l’Accademia d’Arte drammatica diretta da Silvio D’amico. Il mestiere di attrice le si confà ma al contempo non tollera la falsità del mondo dello spettacolo, tanto che non si diplomerà e, in contestazione con gli insegnamenti retrogradi dell’Accademia, formerà una compagnia di avanguardia.
Nel 1947 incontra il regista Citto Maselli, con cui inizia una relazione che durerà 18 anni, e con lui comincia a frequentare ambienti esclusivi, lavorando anche con registi come Comencini, Zavattini e Visconti. Sono gli anni in cui prende parte attivamente alla corrente del neorealismo italiano, luogo per eccellenza di partecipazione civile, politica e morale di quel tempo, corroborando però la sua vena critica che esploderà in tutta la sua potenza nel mestiere di scrittrice. Quel mondo l’attraeva ma non le apparteneva.
“Ancestrale”, la sua prima raccolta di poesie, nasce dal tentativo di superare il lutto per la perdita della madre – «Si è scrollata la vita di dosso, proprio come una persona che si scrolli un peso dalle spalle» scriverà Goliarda e in prima fila al funerale di questa donna fieramente libera, femminista e socialista due futuri presidenti della Repubblica: Saragat e Pertini. Arrivano poi “Lettera aperta” e “Il filo di Mezzogiorno” in cui racconta l’infanzia catanese, la separazione da Maselli, due tentativi di suicidio e un lungo percorso psicoanalitico con cui cerca di chiudere i conti con il sentimento di abbandono instillatole dalla sua «ingombrante» madre.
È attraverso la scrittura, quindi, che Goliarda archivia un doloroso capitolo della sua vita e può dedicarsi – lei che avrebbe voluto tanti figli ma che per una malformazione congenita non può – a uno dei personaggi femminili più dirompenti, indomiti e conturbanti della lettura italiana del ventesimo secolo e lo battezza, con superba ironia, Modesta. Dal 1968 al 1976 ogni fibra del suo essere viene impegnata a far crescere la sua protagonista: un periodo di «perfetta e felicissima solitudine» tanto che nel 1975, quando si accorge di essere innamorata di Angelo Pellegrino, scoppia in lacrime: «Temevo di non riuscire più a finire il mio romanzo».
Angelo era un professore di lettere di 22 anni più giovane, un’unione guardata con sprezzo dalla borghesia romana e che io mi battei invece per “sdoganare”, convincendola a seguire il cuore. Sarà proprio la determinazione di lui a rendere giustizia a quella sua creatura che per vent’anni non trova un editore: troppo complessa e scomoda, barocca e sperimentale e con una protagonista la cui assoluta libertà e autodeterminazione urta contro ogni buon costume e buon senso.
Forse sarà stato anche il dolore per quei rifiuti che la spingono all’isolamento: Goliarda si ritira a Gaeta in un piccolo appartamento sul mare, sola con i suoi pensieri e rifiutando ogni contatto con il mondo e si lascia morire il 30 agosto del 1996. Pellegrino allora decide di stampare a sue spese un migliaio di copie del libro che viene notato da un’agente letteraria tedesca che così lo descrive a un’editrice francese: «un po’ bizzarro, 600 pagine che costeranno una fortuna in traduzione […] una meraviglia». Mentre in Italia gli editori continuano a ignorarla, “L’arte della gioia” trionfa in Francia, convincendo Einaudi a dare alle stampe la prima edizione, a trent’anni dalla sua stesura.
«Quando la mia curiosità verso gli altri sarà finita allora sarà cominciata la mia vecchiaia», diceva Sapienza in una delle tante interviste di quello splendido 1983. L’ho sperimentato in prima persona: la sua era un’apertura agli altri attraverso uno scambio reale che rivelava impressioni, somiglianze, idee, adesioni e tentativi di partecipazione e appartenenza. Le presentai Bettino Craxi e la convinsi a candidarsi con il PSI. Fu per la campagna elettorale dell’83, circoscrizione Roma per il Senato. Ci divertimmo tantissimo, per Goliarda quell’esperienza era come un tuffo nel passato, nella ragione di vita dei suoi genitori, un cordone ombelicale mai reciso. Lei, però era allergica a ogni inquadramento e ideologia, libera e contraddittoria come Modesta, e come lei incarnazione di un femminismo poco dogmatico e meravigliosamente sui generis.
Fu uno di quegli incontri vibranti e assoluti, una donna che non si faceva dimenticare, che amava raccontare e raccontarsi, con quell’eterna sigaretta tra le labbra. Sono felice che finalmente abbia trovato la platea di ascoltatori che avrebbe meritato in vita.
che bellissimo ricordo il tuo Lella, di una donna straordinaria, geniale e tormentata, della sua storia e della storia della sua famiglia, delle sue città, dei suoi amori. Soprattutto del suo coraggio a vivere passioni difficili e percorerre vie impervie per dar retta a se stessa. Della vostra amicizia e del tuo consueto entusiasmo e generosità nel sostenere il suo talento. Bravissima Lella, come sempre.
Daniela
che bellissimo ricordo il tuo Lella, di una donna straordinaria, geniale e tormentata, della sua storia e della storia della sua famiglia, delle sue città, dei suoi amori. Soprattutto del suo coraggio a vivere passioni difficili e percorerre vie impervie per dar retta a se stessa. Della vostra amicizia e del tuo consueto entusiasmo e generosità nel sostenere il suo talento. Bravissima Lella, come sempre.
Daniela Viglione
Il racconto che diventa a tratti un inno alla solidarietà femminile. Ancora una testimonianza di quanto possa essere avvincente la descrizione dettagliata di una conoscenza che diventa una pagina di storia.
Grazie per aver condiviso questa emozionante esperienza.
Rosanna
Lella questo articolo vibra del tuo amore e sorellanza x questa donna straordinaria che avevo già conosciuto grazie a te
Modello attuale di leadership femminile da tenere ad esempio anche nel nostro talvolta più ordinario quotidiano
Grazie alle tue parole ho finalmente compreso cosa c’e’ dietro i successi di film e fiction recenti. La scoperta di una scrittrice moderna con un vissuto familiare e sociale unico. Il tuo articolo inquadra perfettamente il momento storico in cui e’ vissuta, la sua esperienza di figlia di una donna speciale. Sono felice che grazie a Mario Martone se ne parli, ma solo grazie a te, leggero’ i suoi libri. Complimenti come sempre per mettere in luce il valore vero delle donne, che valgono.
Paola
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