Fondazione Marisa Bellisario

ISTRUZIONE, EDUCAZIONE FINANZIARIA E INDIPENDENZA ECONOMICA

di Elsa Fornero e Anna Lo Prete*

La Costituzione riconosce il diritto all’istruzione, garantendo l’accesso alla scuola inferiore, e rendendone obbligatoria la frequenza, ben consapevole dell’importanza che tale istruzione riveste per i singoli e per la società. Una maggiore conoscenza garantisce una maggiore indipendenza di giudizio e di scelta, foss’anche di scegliere di non prendere decidere o di decidere senza troppo riflettere. E favorisce il raggiungimento dell’indipendenza economica, che dipende, a sua volta, da scelte che prendiamo lungo l’intero percorso della nostra vita, in base agli obiettivi che intendiamo perseguire e ai vincoli che le possono limitare.

Scelte migliori possono quindi essere favorite da un adeguato livello di comprensione. Considerando i livelli di istruzione della popolazione di età inferiore ai 40 anni, 6 laureati su dieci sono femmine. Una percentuale in flessione man mano che si considerano coorti più anziane, ma che vede le donne sempre in vantaggio o in parità se consideriamo chi nel 2020 aveva tra i 60 e i 64 anni. Tuttavia, il quadro peggiora quando si misurano le competenze economico-finanziarie. Utilizzando i dati dell’indagine condotta dal Comitato per l’educazione finanziaria in collaborazione con Doxa, un recente studio ha mostrato che nel 2020 solo il 37 per cento delle donne intervistate, contro il 50 per cento degli uomini, era in grado di rispondere correttamente a tutte e tre le domande alla base della definizione di alfabetizzazione finanziaria più comunemente usata nel 2020. Domande che riguardano i concetti di tasso di interesse, inflazione, e diversificazione del rischio (alla base delle scelte di investimento sui mercati finanziari). Percentuale che scende ulteriormente (a 24 e 37 per cento rispettivamente) se si considera chi risponde correttamente due anni di seguito (molte persone preferiscono provare a rispondere, e in alcuni casi ci azzeccano, piuttosto che ammettere di non sapere). Sono valori estremamente bassi se pensiamo a quanto è rilevante la sfera economica nella vita di tutte e tutti, specialmente tra la popolazione femminile.

Significativi divari di genere si registrano non solo nelle competenze economiche ma anche nel mercato del lavoro. Se l’indipendenza economica viene dal lavoro, adeguatamente retribuito, la mancanza ma anche la povertà del lavoro determinano fragilità finanziaria, talvolta vera e propria esclusione, e perciò dipendenza. E la dipendenza comporta non soltanto mancanza di libertà ma non raramente anche violenza, economica o fisica. I dati dell’ISTAT più recenti (e provvisori), relativi al dicembre scorso, indicano che in Italia poco meno del 43% dei 25 milioni e mezzo di individui tra i 15 e i 64 anni che compongono la forza lavoro (composta dalle persone in età lavorativa che lavorano o cercano attivamente un lavoro) sono donne. Un moderato incremento rispetto a vent’anni fa, quando la percentuale femminile era di poco inferiore al 41%, e rispetto al 37% del 1988, anno della morte di Marisa Bellisario. Una progressione lenta che rispecchia la difficoltà del nostro paese ad affrancarsi da una cultura che non riconosce appieno l’importanza dell’uguaglianza di genere tra lavoratori e lavoratrici. Meno di sei donne su dieci sono attive sul mercato del lavoro (il 57,6% delle femmine contro il 76% dei maschi) e di loro poco più della metà ha un lavoro (52,8% delle femmine contro il 71% die maschi).

Nel nostro Paese, più che in altri a noi simili per storia e livello di libertà democratiche riconosciute, il peso del passato ha segnato la società determinando attriti e ostacoli a un pieno affrancamento e rapporti di reciproco rispetto tra maschi e femmine. Temi che oggi ricevono finalmente attenzione. La sensibilità sta cambiando ed è importante che la nostra società attribuisca un adeguato valore sociale al tema dell’indipendenza economica, senza tornare a giustificare, come in passato, forme di subordinazione codificate nelle leggi, e senza rifugiarsi esclusivamente in interventi paternalistici come rimedio, a posteriori, a discriminazioni non sufficientemente combattute a priori.

*Docenti Università di Torino

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