Fondazione Marisa Bellisario

INFERNO E PRODIGIO IN CAMILLE CLAUDEL

Antesignana della lotta per l’emancipazione femminile, ha dominato fango e avversità.

di Giulia Catricalà*

Ci sono storie segnate da lotte sotterranee e ineludibili contrasti. Storie in cui la plasticità della materia, l’armonia delle forme, lo slancio dell’ispirazione duellano strenuamente contro la paralisi dell’oppressione.

La vicenda umana e professionale della scultrice Camille Claudel, internata fino alla morte in un manicomio, si spalanca alla modernità come una delle più significative battaglie per l’emancipazione e i diritti delle donne.

Camille Claudel nasce nel 1864 in una cittadina del Nord della Francia. Sorella maggiore del futuro poeta Paul Claudel, a soli sei anni inizia a modellare la terra e il fango, dando sfogo alla sua indole ribelle.

Appena tredicenne plasma l’argilla e lotta contro l’avversione della madre alla scultura. Il padre, invece, incoraggia il suo precoce talento iscrivendola alla Colarossi di Parigi, dato che l’Accademia delle Belle Arti è riservata agli uomini. Il maestro Alfred Boucher, dopo aver seguito la sua giovane allieva per tre anni, chiede ad Auguste Rodin, allora quarantunenne, di sostituirlo nel corso di scultura. Claudel, a 17 anni, diventa sua amante e collaboratrice. Si trasferisce nell’atelier di Rodin e lo aiuta a realizzare un’opera appena commissionata: La porta dell’inferno. Sono gli anni più felici della sua vita.

Il rigore tecnico di Claudel è sopraffine, la giovane scultrice non ha bisogno di grandi insegnamenti, è stata investita della grazia, del dono della creazione.

Ma parlavamo di contrasti, di stridenti realtà. Camille ha un temperamento sanguigno, autentico, ribelle. Non vuole vestire i panni dell’amante, né vivere di illusioni. Rodin, invece, concretizza i valori borghesi, non riesce a sganciarsi dal suo ruolo sociale e familiare. Torna dalla moglie e dal figlio rompendo il legame con Claudel.

La scultrice si trasferisce in un atelier in Boulevard d’Italie, dove darà forma e sfogo al rammarico. Ma la sua libertà ha i giorni contati. Sopraffatta dal rancore, dalla distruzione del sogno cui aveva votato l’esistenza intera, lascia intravedere fragilità e dissenso. Le sue apparizioni in pubblico danno vita a malelingue, distrugge le sue opere a colpi di martello, si isola e desta preoccupazione.

La porta dell’inferno, che aveva cullato il suo sogno artistico e romantico, si spalanca nella sua unica dimensione di orrore. Una settimana dopo la morte del padre, il 10 marzo 1913, la madre e il fratello firmano per lei la richiesta di ricovero in manicomio. Le viene proibito qualsiasi contatto con l’esterno: vive segregata e alienata dal resto del mondo.

Ma Camille con il fango ci è cresciuta, sa dominare le avversità, le modella, le affina a suo piacimento. Privata della materia tanto amata, utilizza la scrittura per rincorrere il suo sogno di libertà. Spedisce numerose lettere. Prima alla madre: “Signora Claudel quanto durerà questo scherzo?  Poi al fratello, ai conoscenti, a chiunque possa aiutarla. Passano 10 anni e leggiamo ancora: “Fratello mio, portami fuori da qui, questo non è il mio posto e tu lo sai. So che farai di tutto per allontanarmi. È così crudele…”

Il tempo scorre sulle mura dell’istituto, Camille resta sorprendentemente lucida e continua a denunciare la follia della sua prigionia: “Sono in prigione, ecco il trattamento che da quasi vent’anni si infligge a un’innocente. (…) Parliamone del tuo Dio che lascia marcire un’innocente in fondo a un manicomio”.

Ogni anno la reclusione viene suggellata grazie alla firma del fratello, fino alla morte della scultrice, a 78 anni.

L’opera di Claudel ha ricevuto il degno riconoscimento solo in tempi recenti, la sua crudele vicenda ci impone di ricordare ogni giorno l’importanza della lotta per i diritti delle donne.

*Giornalista

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