di Rita Lofano*
È tornato. E in qualche modo, come un ammonimento, quattro anni fa, nel giorno dell’inaugurazione di Joe Biden, lasciando la Casa Bianca lanciò la profezia: “In qualche modo ritorneremo”. Sembrava il canto finale dell’aquila ferita, l’ultimo volo, il tentativo di planare su una preda e ghermirla quando ormai non c’era che un filo d’energia, i più ci risero sopra. E sbagliarono, sottovalutarono, ancora una volta, la capacità di Donald Trump di… rinascere.
Quattro anni dopo, a 78 anni, Trump è tornato a Washington da trionfatore e uomo di una nuova ‘Golden Age’ (“Sono di nuovo qui, il declino è finito, inizia l’età dell’oro dell’America”, ha detto nel suo discorso dell’Inaugurazione), ha giurato come 47° Presidente degli Stati Uniti su due bibbie (quella di Abramo Lincoln e quella che gli regalò la madre) al chiuso, nella Rotonda di Capitol Hill, proprio come fece un grande Presidente, Ronald Reagan, di cui Trump si considera l’erede. Non siamo nel 1985, è trascorso mezzo secolo, lo scenario è diverso ma con un tratto che è un anello di congiunzione: è ripartito lo scontro tra grandi potenze, sono in fase di vorticosa ricostruzione blocchi e sfere d’influenza.
L’altro elemento che fa brillare il filo rosso della storia è la chiarezza della vittoria: il 6 novembre del 1984 il Presidente uscente Reagan sconfisse lo sfidante democratico Walter Mondale in 49 Stati su 50, una delle più grandi vittorie di sempre; Trump ha ottenuto – dopo 20 anni – il successo nell’electoral college e nel voto popolare, ha la maggioranza alla Camera e al Senato, la legislatura ha un netto segno conservatore. Questo naturalmente non significa disporre delle istituzioni americane con un colpo di bacchetta, in America la democrazia funziona, si rinnova, grazie alla Costituzione dei Padri Fondatori.
Ma non ci sono dubbi, Trump ha un mandato elettorale chiaro e – nel segno del ‘ritorno’ e della ‘rinascita’ – gode dell’atmosfera di una sorta di impronta “divina”, come ha sottolineato il Presidente nel suo discorso all’Inauguration Day: “Dio mi ha salvato la vita per rendere l’America di nuovo grande”. Un’affermazione che per noi Europei sembra una sfrontata iperbole, ma che nella cultura dell’America, nella tradizione di cui la politica è intrisa anche in tempi plasmati dalla tecnologia, in realtà trova le sue radici nella tradizione calvinista (il successo è segno di grazia) in cui è immersa la storia americana.
Il programma? È un manifesto Maga: stretta sui migranti, emergenza al confine con il Messico, la bandiera americana che sventolerà su Marte (altro elemento che riporta al passato alla prima grande corsa allo spazio, lo sbarco sulla Luna di cui parlò in un celebre discorso John Fitzgerald Kennedy), lo stop all’ideologia Green e alla politica punitiva nei confronti delle imprese che lavorano nel settore degli idrocarburi, dunque si rilancia “drill baby drill”, via i divieti di Biden sulle trivellazioni, ritorno alla dottrina Monroe per una Grande America, una nuova strategia di espansione territoriale a Nord (la Groenlandia e il Canada) e a Sud (il Canale di Panama), anche siamo dentro la storia, l’acquisizione di terra con il dollaro e l’esercito. La leva economica, il denaro, le regole del commercio internazionale, l’arsenale di Trump: ecco dunque il piano per abbassare le tasse e quello per alzare i dazi, base di ogni negoziato.
La stagione woke con Trump si chiude, la grazia ai rivoltosi di Capitol Hill si specchia con quella concessa da Biden al figlio, ai suoi amici più stretti, una sorta di tacito consenso a chiudere una stagione. Trump nel suo discorso a Capitol Hill è un’iperbole che l’Europa non comprende, perché mancano alle cancellerie europee i codici della macchina di questa presidenza. Partono dal discorso d’addio di George Washington, si prolungano con Monroe, fino a Reagan e poi lui, Trump. Non è l’Ottocento, ma il terzo millennio disegnato dalle nuove tecnologie e dai vecchi conflitti degli imperi che riemergono come un fiume carsico. Nella rotonda del Campidoglio erano schierati tutti i titani dell’innovazione (Jeff Bezos, Sundar Pichai, Mark Zuckerberg e, naturalmente, Elon Musk), il segno della rivoluzione trumpiana arrivata fino alla conquista dei giganti della Silicon Valley; c’era il vice presidente cinese Han Zheng, l’inviato di Xi Jinping, il nemico e partner possibile per un mondo governato nel segno del ‘G2’, un accordo di ‘spartizione’ tra Stati Uniti e Cina; c’era il presidente argentino Javier Milei, l’uomo della motosega e del liberismo che fa da diga al socialismo e alle dittature del Sudamerica; c’era Giorgia Meloni, unico leader europeo, un’energia nuova sulla quale Trump scommette.
Nulla è lasciato al caso, neppure la sobria eleganza della first lady Melania, in total blu navy, colore e stile associati alla Royal family britannica, così come il cappello a falda larga, un altro segno di casa Windsor. Le inaugurazioni sono simboliche ma hanno una valenza pratica, la cerimonia marca il passaggio di poteri da un presidente all’altro e offre un’occasione unica al nuovo inquilino di Pennsylvania Avenue per delineare i principi guida della sua amministrazione davanti alla nazione e al resto del mondo. Siamo in un’altra era, la storia sta scrivendo un altro libro, è il racconto dell’impero americano di Trump.
*Direttore AGI Agenzia Giornalistica Italia
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