di Ornella del Guasto*
Le recenti dinamiche geopolitiche giorno dopo giorno stanno confermando come in Siria la fine della dinastia degli Assad stia sparigliando le carte trasformando quel Paese e il Mediterraneo orientale in veri e propri teatri di azione. E allora ha senso chiedersi chi siano vincitori e vinti del game siriano, chi ha vinto e chi ha perso nel rovesciamento del regime.
Ha vinto certamente la Turchia che ha avuto un ruolo centrale e vede crescere nell’area il suo peso dopo il trionfo dei sunniti che hanno cacciato il regime sciita. Per anni il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha contrastato fermamente Bashar Assad sostenendo una serie di gruppi di opposizione e ospitando 3,2 milioni di rifugiati siriani, assumendosi perciò anche il rischio che la frammentazione e le divergenze ideologiche delle forze ribelli potessero alimentare ulteriori conflitti, complicando i piani turchi. Erdogan sarà in ogni caso uno dei principali attori nella costruzione della nuova Siria perché, anche se non controlla direttamente i ribelli islamisti (Hts) che hanno conquistato Damasco, ha una notevole influenza su di essi. “I turchi sono gli amici più stretti del nostro popolo — ha ammesso ad Al Jazeera il neo presidente siriano al Jolani — e siamo certi che saranno al nostro fianco anche in futuro”. Ma i turchi devono anche navigare tra le tensioni con gli stati arabi, che temono l’ascesa di movimenti islamisti sostenuti da Ankara, che grazie alla sua influenza come attore chiave, sfruttando la confusione in Siria, potrebbe cercare di stabilire un governo filo turco e approfittare di neutralizzare la presenza curda lungo i suoi confini una volta per tutte , nonostante sia noto che al Jolani vuole invece con i curdi un dialogo inclusivo. E questa sarà per Damasco una delle sfide più impegnative.
Perde l’Iran che subisce una dura sconfitta con l’indebolimento di Hamas e il forte ridimensionamento di Hezbollah e che oggi vede anche la caduta della Siria che finisce in mano sunnita. Tra l’altro il territorio siriano era per Teheran fondamentale per il transito delle sue armi verso Hezbollah e per questo gli avversari sunniti oggi trovano la strada sgombra per raggiungere i suoi confini. Per cui l’Iran, in questo ultimo anno di conflitto con Israele, non solo vede sconfitto il suo impegno sul campo ma anche il ridimensionamento degli alleati sciiti più importanti, come Hezbollah. Ma probabilmente oggi anche Teheran cerca una svolta, intrappolata tra la crisi economica, la crisi del petrolio e Israele che spinge per “neutralizzare la minaccia del nucleare iraniano”. Da quando si è insediato, lo scorso giugno, il presidente iraniano Pezeshkian si è trovato di fronte un mondo mutato. Potrebbe essere quindi interessato alla ripresa dei negoziati con l’America e probabilmente a cercare una sponda negli alleati europei, storicamente non ostili come l’Italia, che proprio nel successo dell’azione diplomatica nella vicenda Sala-Abedini ha dimostrato di poter diventare un utile trait-d’union tra USA e UE. Non è anzi da escludere che un ammorbidimento delle trattative da parte iraniana e da parte americana sia stato già avviato. Pochi giorni prima dell’assunzione della carica il vicepresidente James David Vance, in un’intervista a proposito della politica estera aveva dichiarato che “è tempo di iniziare una diplomazia intelligente”. Il tempo ci dimostrerà “quale”
Duro colpo anche per la Russia collegato alla sconfitta delle alleate Siria e Iran nonostante Putin abbia prontamente precisato che la caduta di Assad “non è una sconfitta” e di aver già avviato i contatti con la Turchia per una collaborazione “in nome del reciproco interesse”. Per Mosca, la fine degli Assad mette invece a serio rischio la base navale russa a Tartus in territorio siriano, snodo cruciale per la proiezione militare russa nel Mediterraneo orientale. Per questo non è disposta a perdere l’influenza mediterranea acquisita con la creazione delle basi di Tartus appunto e di Hemin (che con ogni probabilità resteranno operative proprio grazie a una possibile garanzia turca) e neppure all’hub logistico nell’est della Libia, strategico anche per le sue proiezioni africane. Impelagata ancora nell’invasione ucraina, Mosca non può permettersi una totale sconfitta che si trasformi in un fattore di debolezza in futuri tavoli negoziali e per questo il dialogo con la Turchia certamente potrebbe includere una possibile spartizione di sfere d’influenza in Siria e Libia: la Russia, presente in Cirenaica con il cosiddetto “Africa Corp”, potrebbe consolidare la sua influenza in Libia mentre in cambio la Turchia, già attiva in Tripolitania, rafforzerebbe a la sua posizione in Siria . Anche se non è da escludere che un rafforzamento russo in Cirenaica non sia gradito alla Turchia, che mantiene un’importante presenza pervasiva in Tripolitania tanto che potrebbe decidere di aumentarla, anche a scapito degli interessi italiani in Libia.
Il passaggio libico permette di ragionare su come il dossier Mediterraneo – dal Levante al Nord Africa – e i suoi riflessi, siano per molti aspetti interconnessi e arrivati ormai sotto i piedi dell’Europa. La Siria infatti ha avuto un ruolo fondamentale nella strategia di Mosca perché in particolare la base navale siriana di Tartus, è l’unica base russa nel Mediterraneo e il primo suo scalo navale dopo l’attraversamento del Mar Rosso, nonché ponte di collegamento verso la successiva tratta marittima che conduce al Mar Nero, fondamentale nelle ambizioni moscovite. Per questo la base navale siriana rappresenta una ristretta ma importante zona in cui la Russia è in grado di esercitare una proiezione di potenza che può essere all’occorrenza militare, anfibia, economica o commerciale.
Tartus, creata nel 1971 con un accordo tra l’allora leader sovietico Breznev e il Presidente siriano Hafez al-Assad, padre di Bashar, aveva la finalità di consentire alle navi sovietiche stanziate nel Mediterraneo operazioni di riparazione o manutenzione, senza che fossero obbligate a tornare in patria. Inizialmente quindi la base aveva un semplice ruolo logistico, fino all’accordo del 2017, quando alla Russia è stata concessa la piena sovranità sull’area dopo l’intervento a sostegno del governo di Assad durante la guerra civile siriana. Grazie a tale mossa, la Russia ha ottenuto il diritto all’utilizzo della base per un periodo di 49 anni rinnovabile, potendo trasformare un polo logistico in una vera e propria exclave militare. Alla base navale di Tartus si è aggiunta la base aerea di Khmeimim, vicina a Latakia e sul Mediterraneo. Al fine di aumentarne la capacità operativa, Mosca vi ha investito più di 500 milioni di dollari per ampliarla e a oggi può ospitare fino a undici navi militari di piccola e media taglia.
La Russia è fortemente interessata al Mediterraneo per diverse ragioni, non solo strategiche. Innanzitutto al quadrante del Mediterraneo Orientale diventato importante negli ultimi due decenni perché sempre al centro di dispute geopolitiche ma anche per le ingenti risorse energetiche che vi sono state rinvenute. I suoi interessi nell’area sono confermati dal Turkish Stream, dall’acquisizione da parte società russa Rosneft del 30% di un giacimento e dai piani di esplorazione energetica previsti in Siria. Inoltre, il colosso russo Novatek ha creato un consorzio con Eni e Total per la ricerca di riserve di gas in Libano. Ma quella del Mediterraneo orientale è anche un’area in cui la dimensione europea e la sua conseguente influenza vanno ad allargarsi fino al Mediterraneo centrale ed è anche all’interno di questa area che la Russia intende stabilire una “sua” influenza , rafforzando i rapporti con Paesi come Siria, Egitto, Algeria, Libia e Marocco che oltre a partner economici, potrebbero diventare potenziali alleati militari, pronti a concedere in cambio di forniture di armi, l’accesso ai loro porti alla marina russa. All’interno di questo scenario, la base navale di Tartus acquisisce una polifunzionalità perché permette la sosta di navi militari da poter eventualmente dispiegare al fianco di Paesi assistiti da Mosca. Inoltre, rappresenta una base di monitoraggio e di prossimità da e verso Suez, uno dei centri nevralgici del commercio energetico globale. Per il momento, alla luce della situazione Ucraina, le possibili future mosse russe nel Mediterraneo sono imprevedibili. Quello che è possibile supporre però, è che questo mare potrebbe divenire sempre più caldo e teso. Se Mosca dovesse arrivare a rompere completamente i rapporti con l’Occidente , sarà da valutare quale sarà il grado di tolleranza dei maggiori Stati europei e degli Stati Uniti nei confronti della presenza russa sul posto.
Da ultimo, mentre in questo scenario Unione Europea e Stati Uniti hanno difficoltà a riposizionarsi nelle relazioni, sia per impostazione ideologica sia per volontà, gli avvenimenti siriani hanno anche aperto spazi per un coinvolgimento della Cina. Pechino, che lo scorso anno ha elevato le relazioni con il regime siriano al livello di partnership strategica, ora potrebbe sfruttare il vuoto lasciato da Russia e Iran, alleati sconfitti e odiati dai nuovi governanti siriani, per consolidare i propri interessi nella regione. La Belt & Road Initiative, a cui la Siria ha aderito nel 2022, rimane un pilastro della strategia cinese, così come lo è la necessità di garantire la sicurezza delle sue vie commerciali e affrontare con maggiore libertà la delicata questione dei combattenti uiguri presenti sul territorio siriano.
Intanto la penetrazione russa in Africa non si ferma: a dicembre anche il Senegal ha chiuso le basi militari straniere e formalizzato l’uscita dei soldati francesi. È solo l’ultimo dei paesi africani che di recente hanno rotto con Parigi, dopo Ciad, Mali, Niger e Burkina Faso che hanno cavalcato i sentimenti popolari di ostilità verso l’ex potenza coloniale e scelto Mosca come alleato maggiormente affidabile per uno sfruttamento più giusto “delle materie prime” (in caso di sopravvenute frizioni il lungo cammino africano libero ad esempio potrebbe fornire a Mosca come arma di ricatto l’invio di masse di emigranti africani verso il Mediterraneo).
*Political and socio-economic analyst